Un articolo di Luigi Manconi pubblicato dal Foglio sul tema dell’assistenza sessuale per disabili e sul relativo disegno di legge 1442 di cui sono primo firmatario.

Sessualità e disabili, proviamo ad ascoltare la voce dell'”Accarezzatrice”
23 maggio 2014

di Luigi Manconi e Antonella Soldo – Il Foglio

Questo è un articolo spericolato, che va letto – se possibile – senza cautele e senza pregiudizi. Partiamo da una creazione artistica. Il possesso, l’eros, la voluttà. L’abbraccio dei due amanti comunica una tensione così forte che chi osserva non si accorge al momento che le figure non sono affatto perfette. L’uomo, in particolare, ha una gamba mozzata e gli mancano le dita della mano destra. L’opera è Amore e psiche di Auguste Rodin e, se considerata fuori dalla dimensione dell’arte, costituirebbe una delle immagini più inaccettabili per il senso comune. E, infatti, sesso e disabilità rappresentano ancora due tabù nella mentalità condivisa. Se combinati insieme, poi, sommano tutte le categorie di interdizioni che James Frazer – autore del primo studio approfondito sui tabù nelle diverse epoche e società – aveva individuato ne Il ramo d’oro. Sulla scorta di quello schema, ancora oggi si può parlare di tabù di azioni (la sessualità nelle sue diverse espressioni); tabù di persone (i corpi malati e disabili); tabù di oggetti (la superstizione collegata a stampelle e protesi); e, infine, tabù di parole (censura  dei termini relativi al sesso, alla malattia, alla morte). Spesso accade che i tabù rimangano attivi anche quando le ragioni che li avevano ispirati non sussistono più. E proprio per questo la loro interpretazione può raccontare qualcosa della storia della società che li produce e riproduce. Se si prova a ripercorrere insieme i processi di formazione dei tabù del sesso e della disabilità, si troverà che la loro può essere definita come una storia di velamento. Tanto solidi sono i tabù prodotti da quel meccanismo di occultamento/rimozione che quando si viola il divieto, la conseguenza è una crisi: disagio, mortificazione morale, pubblica riprovazione. Ciò che ne deriva è la vergogna. E la vergogna è anche un sentimento intimamente legato allo stato di nudità: se ne trova traccia nella lingua italiana che indica con “vergogne” le parti genitali. Quasi che la vergogna più grande fosse quella di scoprire il corpo, ovvero denudarsi, e di scoprirsi come corpo, ovvero carne e anatomia. Nel racconto biblico è solo dopo aver infranto il divieto divino che Adamo ed Eva avvertono la propria nudità («allora si aprirono gli occhi di entrambi e videro che erano nudi» Gen. 3,7); ed è allora che – vergognandosi – cercano di coprirsi. Non sorprende, dunque, che l’oscura vergogna del corpo, opposta alla luminosità dello spirito, finisca col segnare una parte della teologia morale cristiana. Ed è in questa storia di velamento che vanno inseriti episodi che non richiamano certo la grandezza dell’elaborazione teologica, ma più semplicemente il grottesco della pulsione censoria: pensiamo al travisamento degli scandalosi nudi della Cappella Sistina. L’esultante carnalità dei corpi, la vibrante tensione di muscoli e nervi, l’esposizione trionfale dei genitali risultavano insopportabilmente osceni per la Congregazione del Concilio di Trento che ne decretò, appunto, il velamento. E si tratta solo di un momento, certo assai significativo, dell’ininterrotto conflitto tra velare e disvelare che sembra attraversare l’intera storia occidentale e, in particolare, le vicende della cultura e dell’arte. Qui intese come elaborazione del materiale emotivo, onirico e mentale che si accumula intorno al corpo e alla sua nudità, alla sua potenza e alla sua imperfezione. E sarebbe un grave errore interpretare tutto questo esclusivamente come uno scontro tra “sacro” e “profano”. Qui, con un salto vertiginoso, si propone di passare da un cielo così carnale a una carnalità che cerca il celestiale del piacere. É quanto, magari tortuosamente, capita di pensare leggendo il romanzo di Giorgia Würth, l’Accarezzatrice (Mondadori, 2014). Certo il libro parla d’altro ma è come se il filo della narrazione volesse costantemente annodarsi intorno a quelle grandi questioni prima citate e che, tutte, si intravedono sullo sfondo. La storia è quella di Gioia che, dopo aver perso il suo lavoro di infermiera, comincia per caso a fare l’assistente sessuale per disabili. Questo percorso – che la costringe a fare i conti innanzitutto con i propri pregiudizi e paure – la porta a scoprire un mondo nascosto, palpitante di sofferenze e desideri. Di questi corpi svelati, esposti in tutta la loro imperfezione, la protagonista impara a riconoscere la peculiare bellezza: «il corpo di un uomo è come un pianoforte[….].Ha dei tasti e, a seconda di quale premi, provochi una reazione, produci una nota. Suonare un corpo sano è bello, elegante. Spesso facile. Ma vuoi mettere la soddisfazione e la felicità che può darti far vibrare di musica un corpo rotto?». Le carezze di Gioia aiutano i suoi clienti a non odiarsi, a non avere orrore di sé stessi, e ad accorgersi che quelle membra così sofferenti possono dare e ricevere piacere. Sia chiaro: nulla di tranquillizzante e tantomeno di facile in tutto ciò. La dimensione è comunque quella tragica, dove ogni atto ogni palpito e persino ogni emozione costa un’immane fatica; e dove ogni progresso può tradursi in un disastroso rovescio. Ma cos’altro resta, quando anche la disperazione può apparire più rassicurante di ogni volontà di esistenza e di resistenza? Ora un altro salto mozzafiato: da questa sfera profonda dove si guarda e ci si guarda non per cercare un senso introvabile al dolore, bensì per farne occasione di conoscenza, arriviamo a immaginare leggi che offrano opportunità di sostegno a chi ne ha bisogno. In alcuni paesi europei la figura dell’assistente sessuale è già riconosciuta e regolamentata e altrettanto si prova a realizzare in Italia (con Sergio Lo Giudice e altri). Ma, ovviamente, tutto ciò potrà essere anche solo considerato se si avrà l’intelligenza – coraggio e misericordia – di guardare quei corpi (i nostri corpi): e di pensare che il desiderio, il piacere, la realizzazione di sé (per quanto deficitario e “rotto” appaia quel sé) siano degni e sacri quanto la rinuncia e il sacrificio.

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