Chi pensa al carcere pensa alla privazione della libertà personale. Ma troppo spesso il carcere è anche negazione di umanità. È certamente privazione di affettività, lacerazione di relazioni familiari, crudele negazione di un abbraccio o di una carezza, innaturale rimozione della sessualità di corpi giovani e meno giovani, ma sempre sottoposti ad astinenze sessuali forzate per lunghi anni, spesso decenni, a volte per sempre. Privazione, in fin dei conti, della possibilità di vivere la reclusione in uno stato, se non di un’improbabile serenità, almeno di equilibrio psicofisico tollerabile.

Figli, coniugi e conviventi a loro volta pagano sulla loro pelle la pena che i loro congiunti ristretti si trovano a scontare: è violato così lo stesso articolo 27 della Costituzione che recita che la responsabilità penale è personale.

Bambini che incontrano i genitori nelle fredde stanze dei colloqui dopo lunghe file d’attesa che iniziano di primo mattino; intere famiglie costrette ad inseguire i trasferimenti da una città all’altra per un rapido incontro in presenza di estranei, genitori anziani spesso lontani dal luogo di detenzione condannati – anche loro – a qualche sporadica telefonata avidamente cronometrata. Dieci minuti alla settimana, tanto può durare al massimo una chiamata: una limitazione assurda e priva di logica alla possibilità di mantenere quel legame con i propri affetti che sarebbe lo strumento migliore per un ripensamento reale sui propri errori.

C’è chi, dietro le sbarre, ha perso tutto tranne la speranza di rivedere quei figli che intanto si sono laureati, chi a casa ha una sorella o un fratello con cui condividere il dolore per una madre o un padre che é venuto a mancare, o un compagno o una compagna da abbracciare, accarezzare, baciare.

Il primo dicembre ho partecipato al convegno “Per qualche metro e un po’ di amore in più” organizzato da Ristretti Orizzonti nella casa di reclusione di Padova.

Per la prima volta ho sentito la viva voce di figlie e figli dei reclusi raccontare il loro dramma e rinnovare il ricordo di quei bambini costretti in dieci minuti di telefonata da condividere con tutta la famiglia o in incontri frettolosi dietro a un vetro. E poi c’è il dramma di una sessualità estirpata, di atti rubati di autoerotismo illegale (in carcere sono atti osceni in luogo pubblico) di un’omosessualità oltraggiata dall’essere spesso oggetto di costrizione, di un tasso di contagi da Hiv superiore che fuori dalle mura, perché anche un preservativo in carcere è illegale, di giovani donne e giovani uomini che, fuori, sono a loro volta condannati a un’astinenza che spesso produce la rottura dei rapporti familiari. Della tragedia aggiuntiva di chi finisce la pena e si ritrova completamente solo.

Il convegno ha prodotto il documento “Facciamo entrare l’affetto in carcere“, una serie di proposte concrete per una detenzione più umana: dalla liberalizzazione delle telefonate all’aumento dei giorni di permesso premio, dai colloqui con la famiglia senza il controllo visivo alla maggior frequenza degli incontri ordinari.

Pochi mesi fa ho depositato in Senato con una ventina di colleghi un disegno di legge sulle relazioni affettive e familiari dei detenuti, una proposta già depositata nella scorsa legislatura dalla deputata radicale Rita Bernardini, che va in questa direzione. Un incontro al mese di tre ore con il proprio coniuge o partner senza controllo visivo in locali adeguati ad ospitarli, il diritto a trascorrere mezza giornata con i propri cari in apposite aree, qualche giorno di permesso in più da trascorrere a casa con i propri affetti. Piccole proposte di civiltà che tolgano ai detenuti la pena accessoria, inutile e socialmente dannosa, della negazione del cuore e del corpo.

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Articolo pubblicato sull’Huffington Post

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