Alla fine mi sono deciso. Salto sul carro. Non su quello che è in testa alla parata trionfale, quello col vento in poppa e le quotazioni a mille. Salto su quell’altro, quello di cui i giornali parlano poco e le tv meno, che in pochi danno per vincente perché è trainato da pochi cavalli, ma dietro cui c’è un sacco di gente disposta a spingere. Alle primarie dell’8 dicembre per scegliere il segretario del PD appoggerò Giuseppe Civati.

Gianni Cuperlo è amico di tante battaglie per i diritti civili e la laicità dello Stato (e del partito), in prima fila con me al Pride nazionale di Bologna, uomo di grande spessore culturale e umano, che mi ha fatto conoscere Todorov e amare Joe Lansdale. Tuttavia la sua candidatura non mi ha convinto per alcuni tratti dell’operazione che rappresenta, nonostante lui.
Ci vedo la tentazione della conservazione di un passato che non passa, la resistenza di un’idea di partito un tempo utile ed efficace, ma che non corrisponde più alle esigenze di una buona politica contemporanea, che fatica a parlare ai più giovani e a rimotivare i più anziani. Un partito in cui gli iscritti – la forza attiva e appassionata di ogni organizzazione politica – calano di numero perché operano dentro un modello organizzativo che non riesce a parlare all’esterno, a intercettare le nuove forme della partecipazione politica e quindi a produrre ricambio e ampliamento della base attiva.
È in atto una nuova onda di impegno politico giovanile, ma noi ne siamo poco coinvolti perché assume vesti originali e forme diverse, dalle associazioni tematiche ai comitati referendari, che noi siamo sempre meno in grado di interpretare. Non sarà certo la sostituzione della rete alla democrazia, il sogno malato del comico di Genova e del suo tecno-guru, la nuova frontiera della partecipazione: ma le tante forme di azione concreta messe in atto da chi ha voglia di cambiare la realtà raramente attraversano le porte dei nostri circoli nonostante il nostro impegno e ottime pratiche sperimentate, per esempio a Bologna grazie a Raffaele Donini e alla sua giovane squadra. So che Gianni lo ha bene in mente, ma vedo che nell’organizzare la resistenza anti-Renzi si stanno irrigidendo alcune binomie (sezione/gazebo, iscritti/elettori, selezione dirigenti/ primarie) che non vanno contrapposte ma fatte crescere dialetticamente. Temo inoltre che la logica delle correnti personalistiche e il vezzo della manovra politica spregiudicata che hanno portato al disastro dei 101 siano pronte a condizionarne l’eventuale vittoria. Fra chi sostiene Cuperlo – insieme a tante belle persone appassionate e desiderose di cambiare per vincere – c’è chi meno ha fatto i conti con le ragioni della serie di sconfitte o mezze vittorie che hanno accompagnato la nostra storia degli ultimi vent’anni e, più di recente, la breve vita del Pd.

A Matteo Renzi riconosco di avere dato uno scossone salutare ad alcune vecchie logiche della politica italiana (e del Pd) e di sapere parlare a tanti italiani, dando così al centrosinistra quella prospettiva di vittoria elettorale necessaria a non sprofondare nella rassegnazione. Non mi era piaciuto che avesse sovrapposto il rinnovamento con la rottamazione e sono contento che mostri di volere andare oltre quel concetto, su cui lui stesso ha avuto parole di ripensamento.
Andare oltre la rottamazione significa mettere a fuoco una visione forte del futuro del nostro partito e del suo rapporto con la società. In vista della costruzione di un progetto forte per l’Italia e del suo futuro. Questa visione ancora non è messa a fuoco. Conto che Matteo si lasci attraversare e contaminare dalle sollecitazioni di Goffredo Bettini: costruire un campo ampio dei democratici fondato su una democrazia deliberativa diffusa, sulla cessione di sovranità verso il basso non solo sulle candidature ma anche sui temi.
Renzi potrà rappresentare la nostra carta vincente alle prossime elezioni politiche ep ortarci fuori dalle secche delle larghe intese (in cui molti dei nostri sembrano iniziare a trovarsi ottimamente: come si dice, “se non puoi uscire dal tunnel, arredalo”). Credo però che intanto il partito debba mettere a punto una sua proposta per il paese dando la parola a tante e tanti. Spero che Matteo saprà unire la determinazione dei suoi obiettivi all’ascolto attento a chi vorrà contribuire, in un’azione collettiva com’è quella di un partito progressista, a riempirlo di contenuti adatti a dare risposte concrete ai bisogni del nostro tempo.

In questi mesi ho incontrato più volte Pippo Civati sulla mia strada. Con lui e con molti altri ho condiviso la speranza in un governo di cambiamento, l’obiezione motivata e trasparente alla candidatura di Marini, il tentativo di costruire un fronte ampio pro Rodotà, lo sconcerto di fronte al killeraggio di Prodi. E, dopo, l’amara consapevolezza che alcuni nel nostro partito avevano vinto e ci avevano portato dove avevano voluto e noi, in tanti, avevamo perso.
Ci siamo ritrovati insieme nei nostri gruppi parlamentari a difendere le ragioni di un ripensamento sugli F35, sul palco del 2 giugno a Bologna e poi in piazza a Roma a ribadire un’attenzione vigile sulla Costituzione, a chiedere che alcune leggi di civiltà, utili al paese e ad aumentare il suo tasso di giustizia – voto di scambio, legge elettorale, omofobia, risposta al sovraffollamento carcerario – fossero condotte in porto con convinzione e senza snaturarne il senso e l’efficacia.
Nella sua proposta vedo la visione di un PD capace di parlare al cuore dell’Italia senza seguirne necessariamente la pancia. Un partito che si rimette in discussione a partire dai circoli, non per renderli più evanescenti, ma più aperti e permeabili, capaci di essere strumento di quella “mobilitazione cognitiva” a cui ci ha chiamato Fabrizio Barca e che consiste nel produrre conoscenza e competenze diffuse per poi trasferirle ad amministratori e dirigenti di partito. Un partito che non si rassegna alla mancanza di alternative ma che ha la consapevolezza che le alternative le si costruisce, se ci si crede davvero. Un partito che conosce la fatica del riformismo e delle mediazioni possibili, ma le affronta lanciando uno sguardo verso il futuro, lasciando vedere l’obiettivo più a lungo termine, a partire dall’impegno per i diritti di tutte e tutti che o si fonda su un progetto di piena uguaglianza o rimane cieco e vuoto.
La vita di un partito, come quella di un gruppo parlamentare, è fatta di ricerca di sintesi e di mediazioni possibili, ma il momento del congresso è quello in cui fare emergere con nettezza una visione del futuro del paese e capire insieme dove vogliamo andare. C’è un popolo di sinistra che ci guarda con sconforto, un elettorato deluso che ha visto poco a poco smorzarsi l’entusiasmo, che accetta che il suo – il nostro – partito perda le elezioni ma che ha paura di vederlo perdere l’anima. Starà a tutte e tutti noi, nelle prossime settimane, costruire un dibattito congressuale che ritrovi quell’anima collettiva, cercandola anche fuori dai nostri confini, per farla vivere nelle nostre prossime scelte.

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