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Il Partito democratico ha bisogno di una messa a punto. La visione delineata da Veltroni al Lingotto ha coraggiosamente messo in moto un processo che ne ha messo alla prova i punti di forza e di debolezza. Alcune carenze di quel progetto sono diventate limiti concreti all’azione del Pd per cambiare l’Italia.

1. L’identità. Niente può relazionarsi ad altro se non a partire da sé stesso e dalla consapevolezza di ciò che si è. Per un partito non confessionale e non basato su un’ideologia totalizzante il pluralismo interno è una necessità. Il Pd è un partito plurale, sintesi di riformismi diversi, aperto a chiunque ne condivida i presupposti fondativi: quelli enunciati nel Manifesto dei valori, che riprendono i principi della Carta costituzionale, a partire dall’applicazione dell’art.3 della Costituzione. Non possono avere cittadinanza nel partito posizioni esplicitamente razziste, antisemite o omofobe. Questo non significa armarsi di cartellini rossi, ma avere il coraggio di dichiarare non compatibili col progetto del Pd le posizioni che riprendono o rinnovano tragiche esperienze di segregazione e discriminazione. In un grande partito riformista occorre assumere democraticamente una posizione politica chiara anche sulle materia più controverse, cosa che non è successa sul testamento biologico. Solo questo metodo può giustificare l’adesione di chi si ritrova in minoranza su un tema specifico ma sa di potere essere in grado, attraverso l’azione politica, di modificare quelle posizioni. L’assunzione di una posizione chiara e netta su un tema controverso come l’estensione del matrimonio civile alle coppie dello stesso sesso, ad esempio, può non essere matura oggi ma è necessario esplicitare l’idea di società che abbiamo se vogliamo che chi vuole battersi per quell’obiettivo individui nel Pd il luogo del suo impegno politico.

2. Il radicamento territoriale. Il Partito democratico deve essere una forza popolare, radicata nei territori e capace di costruire democraticamente le sue posizioni a partire dal basso. Nei nostri primi anni di vita abbiamo perseguito un modello di partito leggero, leaderistico e plebiscitario, mentre la Lega sfruttava con successo il modello dei partiti popolari che ci hanno preceduto, in grado di essere in contatto con la base e di selezionare dal basso i dirigenti. Questo ha prodotto un calo dell’elaborazione politica del partito, col risultato che su alcuni temi importanti, come i diritti civili o il lavoro, si naviga a vista.

3. Le alleanze. Sulla vocazione maggioritaria del Pd si è creato un equivoco fra chi l’intendeva come un progetto di aggregazione progressiva di un campo di forze e chi ha preteso di fare piazza pulita intorno a noi sperando in un accelerazione bipartitica che non c’è stata. Io penso al Pd come al baricentro di un campo di forze riformista che superi l’esperienza di un fronte comune di decine di partitini rissosi, ma eviti allo stesso tempo una pretesa di autosufficienza oggi impraticabile.

Questo è quello che penso del Pd e di questo ho ritrovato forti riscontri nel discorso di Roma di Bersani. So bene che su alcuni punti (primo fra tutti, come dare contenuti concreti all’enunciazione di una maggiore laicità) il discorso è aperto e i prossimi mesi dovranno dare delle risposte. So anche che sul tema della laicità del partito Ignazio Marino dice e dirà parole molto chiare e condivisibili ma, pur apprezzando molto Marino e il suo impegno, considero un errore confinarle in una candidatura di testimonianza. Mi impegnerò – credo che saremo in tanti – a fare vivere quelle stesse battaglie nel congresso accanto a Bersani.

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