Nel 1986 iniziava a Palermo il maxi processo alla mafia. Ali Ağca veniva condannato per l’attentato a Giovanni Paolo II. Enzo Tortora veniva assolto con formula piena. In Unione Sovietica esplodeva il reattore nucleare di Cernobyl. In Senato una parlamentare napoletana, Ersilia Salvato, depositava il primo disegno di legge sulle convivenze di fatto.
Da allora sono passati trent’anni esatti. In ogni legislatura sono state depositate proposte di legge sulle coppie di fatto, le unioni civili, i pacs, i dico, i matrimoni egualitari. Mai prima di oggi un’aula del Parlamento aveva ritenuto importante discuterne. Un’altra generazione di lesbiche e gay italiani, l’ennesima, è invecchiata o se n’è andata senza che lo Stato riconoscesse la dignità dei loro amori.
In questi trent’anni, da quando la Danimarca ruppe il ghiaccio nel 1989 emanando la prima legge al mondo sulle unioni civili, identica a quella che stiamo discutendo oggi, 14 Paesi europei hanno esteso il matrimonio civile alle coppie dello stesso sesso, così come hanno fatto gli Stati Uniti d’America, i grandi paesi cattolici del Sudamerica, il Canada, il Sudafrica, la Nuova Zelanda e altri ancora.
La Germania, insieme ad alcuni Stati dell’Europa orientale, ha adottato invece il vecchio istituto delle unioni civili. Oggi solo Bulgaria, Lettonia, Lituania, Polonia, Romania e Slovacchia tengono compagnia all’Italia nel triste girone dei paesi dell’Unione europea in cui i diritti delle coppie dello stesso sesso sono totalmente ignorati dalla legislazione.
Il Parlamento italiano arriva oggi con trent’anni di ritardo a questo appuntamento con la storia, forse pressato, più che dall’urgenza morale, da due sentenze della corte costituzionale. Nella sentenza 138 del 2010 la Consulta ha definito l’unione omosessuale come la “stabile convivenza tra due persone dello stesso sesso, cui spetta il diritto fondamentale di vivere liberamente una condizione di coppia, ottenendone il riconoscimento giuridico con i connessi diritti e doveri.” La Corte aggiunge che sarà lei stessa a garantire, attraverso il controllo di ragionevolezza, “la necessità di un trattamento omogeneo tra la condizione della coppia coniugata e quella della coppia omosessuale”.
“I concetti di famiglia e di matrimonio – si legge nella sentenza – non si possono ritenere “cristallizzati” con riferimento all’epoca in cui la Costituzione entrò in vigore, perché sono dotati della duttilità propria dei principi costituzionali e, quindi, vanno interpretati tenendo conto non soltanto delle trasformazioni dell’ordinamento, ma anche dell’evoluzione della società e dei costumi”.
Sembrano risuonare qui le parole di Aldo Moro all’Assemblea costituente , quando lasciò agli atti che “pur essendo molto caro ai democristiani il concetto del vincolo sacramentale nella famiglia, questo non impedisce di raffigurare una famiglia, comunque costituita, come una società che avendo determinati caratteri di stabilità e funzionalità , possa inserirsi nella vita sociale”.
Appare insomma evidente il paradosso con cui oggi l’articolo 29 della Costituzione, voluto per difendere le famiglie così come sono da interventi ideologici dello Stato viene invece brandito come una clava per negare autonomia e valore sociale a una parte delle famiglie italiane.
È nel solco di questa naturale evoluzione del diritto che si è giunti alla sentenza della Cassazione 4184 del 2012, che definisce i componenti della coppia omosessuale titolari del diritto alla “vita familiare”. Anche in questo caso, nessuna lettura creativa, ma il recepimento necessario della giurisprudenza comunitaria e della Corte europea dei diritti umani che oggi considera in maniera incontrovertibile doversi applicare alle coppie dello stesso sesso quel “diritto alla vita familiare” sancito dall’art.8 della Convenzione europea dei diritti umani.
Proprio la negazione del diritto alla vita familiare è costata all’Italia, nel luglio scorso, la condanna da parte della Corte europea dei diritti umani: sarebbe del tutto incoerente come qualcuno chiede, togliere dal testo l’unico riferimento presente al concetto di “vita familiare”. Infine, la sentenza 170 del 2014 che ha chiesto al parlamento di colmare questo vuoto giuridico, che corrisponde a una lesione di diritti fondamentali “con la massima sollecitudine”.
Si è detto che questa legge rappresenta l’estensione del matrimonio alle coppie dello stesso sesso. Purtroppo non è così, anche se con altri colleghi abbiamo presentato emendamenti in questo senso.
Avevo depositato già il primo giorno di questa legislatura un disegno di legge per il superamento della discriminazione nell’accesso al matrimonio che oggi rappresenta la peculiarità dell’Italia rispetto alla maggioranza dei paesi europei, ma questo parlamento ha scelto un’altra strada, l’unica altra strada possibile per rispondere alle ripetute sollecitazioni della Consulta senza incorrere in norme discriminatorie destinate a cadere sotto i colpi delle corti europee: un istituto distinto che riconosca la parità di diritti.
La legge tedesca sulle unioni civili, cui oggi diciamo di ispirarci è stata sanzionata dalla Corte di giustizia tutte le volte in cui è stata impugnata una differenza di trattamento rispetto al matrimonio. È quello che è successo, ad esempio, nel 2008, quando la Germania fu costretta dalla Corte di giustizia europea a riconoscere alle coppie unite civilmente la pensione di reversibilità in un primo momento negata, in nome del principio di non discriminazione dei cittadini sulla base del loro orientamento sessuale. Ogni differenza di trattamento in termini di diritti nascerebbe come disposizione già morta, perché sarebbe giudicata dalla stessa Corte di Giustizia che si è già espressa sulla legge tedesca.
Sull’articolo 5, che estende alle parti delle unioni civili la possibilità di adozione del figlio del partner già prevista per i coniugi, dirò solo due cose. La prima riguarda quel che non c’è, la seconda quello che c’è.
Quello che non c’è è una modifica della legge 40 del 2004 che renda possibile in Italia quello che oggi è vietato: l’accesso alla gestazione per altri e l’ accesso alla fecondazione eterologa per donne singole o coppie di donne.
Quello della maternità surrogata è tema complesso e delicatissimo, che meriterà un dibattito serio e approfondito, fuori dalla strumentalità di questi mesi.
È tema che divide, certo: divide gli Stati europei che lo affrontano in modo diverso, chi vietando, chi regolamentando, chi ignorando; ha diviso in più occasioni il parlamento europeo; divide il movimento femminista internazionale e quello italiano, che si è spaccato non certo sul giudizio negativo unanime sulle situazioni di sfruttamento e illegalità nei paesi poveri ma su quanto in questo giudizio negativo dovessero essere coinvolte anche le situazioni basate sulla libertà e la tutela dei diritti di tutti i soggetti coinvolti.
È tema, è bene ricordarlo, che riguarda al 95% coppie eterosessuali e che interessa meno del 20% dei figli di persone omosessuali, la cui gran parte è composta da figli di coppie di donne e una parte dei quali è nata da precedenti relazioni eterosessuali.
Chi evoca in questo contesto l’orribile situazione di sfruttamento di donne dei paesi poveri, spinte della miseria, spesso non consapevoli, in mano a racket o ai loro stessi mariti pone l’accento su un fenomeno reale su cui l’opinione pubblica internazionale dovrebbe alzare il livello di attenzione, ma mente sapendo di mentire quando lega questo fenomeno alle coppie gay che sono escluse all’origine dalle leggi di quegli stessi Stati, che limitano alle coppie eterosessuali l’accesso a questi tristi fenomeni di sfruttamento. Nessuna coppia di uomini può accedere a questa pratica in India o in Thailandia, ma neanche in Russia o Ucraina, poiché questi paesi la ammettono solo per coppie di uomo e donna.
Le coppie gay italiane possono accedere alla gestazione per altri solo in Stati Uniti o Canada, dove vigono rigorosi protocolli a tutela della libertà delle donne e dell’assenza di un bisogno economico. Si tratta di donne che attivano con quei bambini legami che durano, che avranno un ruolo nella loro vita consentendo peraltro la trasparenza delle origini, compresa quella genetica, in modo superiore a quanto consentito oggi in Italia dalla legge 40. La gestazione per altri è possibile in California perché così ha stabilito la Corte Suprema di quello Stato, da giudici estremamente attenti alla indisponibile tutela dei diritti della donna. Se il Parlamento ha il dubbio che negli Stati Uniti o in Canada siano violati i diritti delle donne americane o canadesi, promuoviamo un approfondimento, attivando i canali politici e diplomatici che abbiamo con nostri alleati per verificare quali protocolli preveda il diritto di quei paesi a protezione della libertà della donna. Ma evitiamo la criminalizzazione di condotte che lì, in paesi di solida civiltà giuridica e alta attenzione ai diritti civili di tutte e tutti, sono perfettamente regolamentate e socialmente accettate. E ragioniamo piuttosto sull’apertura alle adozioni di bambini abbandonati anche alle coppie dello stesso sesso, come avviene in gran parte d’Europa.
Ad ogni modo, giova ripetere che la legge che stiamo discutendo non modifica una virgola dei divieti previsti dalla legge 40. Ma vengo al secondo punto che è quello dirimente. Nel 2014 l’Italia ha definitivamente archiviato la distinzione fra figli naturali e figli legittimi. Fino ad allora era rimasta in vigore una distinzione, che oggi ci appare barbarica, fra i figli nati all’interno del matrimonio, a cui venivano riconosciuti maggiori diritti rispetto ai figli nati fuori dal matrimonio, considerati illegittimi. Anche in quel caso, la logica di quella distinzione si fondava su un giudizio etico negativo del legislatore, che puntava a disincentivare i rapporti sessuali extramatrimoniali intervenendo sui diritti dei bambini e stigmatizzandoli socialmente come diseguali fra loro. Con scarsi risultati, se oggi un bambino su quattro – in alcune zone d’Italia uno su tre – nasce fuori dal matrimonio.
Oggi è sentire comune, della politica come delle corti, che qualunque valutazione sulle scelte degli adulti e sulle modalità in cui un bambino sia venuto al mondo non possa sovrastare il diritto di quel bambino a vedersi riconosciuti giuridicamente i legami con i suoi genitori di fatto. La stessa legge 40 , varata dalla maggioranza di centrodestra nel 2004, nel vietare anche alle coppie eterosessuali la possibilità di fecondazione eterologa sul territorio nazionale – divieto poi cancellato dalla consulta – affrontava nel modo migliore il tema dei figli nati all’estero da quella pratica vietata in Italia.
L’art.9, infatti, prevede che “Qualora si ricorra a tecniche di procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo il coniuge o il convivente il cui consenso è ricavabile da atti concludenti non può esercitare l’azione di disconoscimento della paternità”. Un principio elementare nella sua semplicità, coerente con la Convenzione di New York sui diritti dell’infanzia e con quei criteri di umanità che devono sempre guidare il legislatore, un principio che sembrò scontato e unanime a proposito di figli di coppie eterosessuali e che invece viene ribaltato nel suo opposto ora che si parla di coppie dello stesso sesso.
A questi bambini, non a causa della loro origine ma del tipo di famiglia in cui nascono e crescono, si vogliono porre limitazioni di ogni tipo, negando la possibilità di un rapporto pieno, stabile e non precario con i loro genitori o mettendo sotto controllo speciale quelle famiglie per due, tre o molti anni affinché abbiano il tempo di dimostrare allo Stato di essere buoni genitori attraverso modalità speciali rispetto a quelli delle famiglie eterosessuali, percorsi più lunghi e complicati, restrizioni rispetto ad una giurisprudenza che si va affermando nel paese.
La adozione coparentale o stepchild adoption è prevista nel nostro ordinamento da trent’anni per le coppie eterosessuali e da un paio di anni si va affermando un indirizzo in giurisprudenza che la ammette già anche per le coppie dello stesso sesso con gli stessi presupposti, dell’attenta verifica del superiore interesse del minore, richiesti per le coppie eterosessuali: ogni disparità di trattamento che venisse introdotta in questa legge non solo sarebbe palesemente incostituzionale, perché farebbe ricadere sui bambini una odiosa discriminazione nei confronti dell’orientamento sessuale degli adulti, ma finirebbe, nel momento in cui il nostro paese si appresta a dare qualche diritto agli adulti, per toglierne proprio ai più piccoli. Siamo di fronte a un passaggio storico per il nostro paese. Questa legge non riconosce l’uguaglianza alle coppie omosessuali. Facciamo almeno in modo che riconosca la piena dignità di queste famiglie e dei loro bambini.