Un mio intervento pubblicato sul Domani di Bologna di sabato 24 maggio 2008

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L’imprenditoria della paura sta facendo affari d’oro in queste settimane. L’insicurezza dei cittadini è un problema serio e reale per cui servono risposte concrete, cioè le più difficili. Tanto si è detto e scritto sulle cause profonde di questa paura: il venir meno delle ragioni comunitarie che da sempre danno un’identità rassicurante a una società; la precarietà del lavoro e del futuro; lo smarrimento dell’essenza profonda dell’esperienza personale, spesso trasformata in una sorta di gioco virtuale che può essere resettata a comando come un videogame. Le risposte che occorrerebbe dare riguardano l’identità stessa del nostro paese e delle sue comunità locali, la ricostruzione dei valori comuni espressi dalla Costituzione, un investimento forte sul futuro del nostro paese, a partire dai suoi ceti più deboli e non garantiti, attraverso la formazione e la scuola. Intervenire sui sintomi in tempi rapidi è giusto e necessario. Se ho l’influenza prendo volentieri una compressa e se la mia strada è male illuminata non mi basterà cercare le ragioni del mio disagio nei processi di una globalizzazione troppo rapida e senza regole. Ma far credere che sconfiggere i sintomi più visibili – o più agitati – sia la strada maestra non è solo un errore ma una strategia populista e in malafede che non solo non produce soluzioni ma mira ad alimentare quelle paure per meglio utilizzarle. Il governo di destra da poco insediato sta dando la miglior prova di come la demagogia rischi di incancrenire la ferita che ci si propone di curare. L’introduzione del reato di immigrazione clandestina non solo criminalizza la miseria di mezzo milione di persone che nel nostro paese lavorano in nero e malpagati, ma rischia di produrre un impatto devastante su una giustizia già paralizzata e su un sistema carcerario che sta per esplodere.

Ne vedremo presto i risultati anche a Bologna, dove il carcere della Dozza ha nuovamente superato le mille presenze, più del doppio di quelle previste, con quasi il 70 % delle presenze costituita da stranieri e l’80% in attesa di giudizio. Non è scatenando la caccia a tanti lavoratori irregolari ma onesti né creando in città una bomba di tensioni com’è già oggi il carcere della Dozza che si sconfigge la paura. Il fenomeno più inquietante di queste settimane è la perdita crescente di quegli inibitori culturali che ci impedivano di individuare a voce alta in un gruppo etnico il nostro nemico. A torto sono state criticate da destra e da sinistra alcune misure dell’amministrazione comunale mirate a sanare delle situazioni di degrado sociale fornendo soluzioni concrete: dallo smantellamento di insediamenti abusivi e pericolosi sul Lungoreno al trasferimento degli ospiti dell’ex Ferrhotel a Villa Salus e poi verso altre destinazioni. Con troppa leggerezza si è urlato in quella occasione contro un Comune considerato non accogliente o troppo accogliente mentre cercava di sostituire percorsi praticabili all’indifferenza dell’amministrazione precedente. Così, oggi ci mancano le parole e i gesti adeguati a manifestare la nostra indignazione verso la produzione di misure e di politiche costruite su base etnica o nazionale, come non era mai accaduto nella storia della Repubblica, arrivando a considerare un’aggravante per un reato non un comportamento ma la nazionalità di chi lo commette, come prevede il pacchetto sicurezza del governo.

In questi giorni sta girando in rete quella bella poesia di Martin Niemöller che recita: “Poi vennero per gli ebrei, e io non dissi nulla perché non ero ebreo. Poi vennero a prendere me. E non era rimasto più nessuno che potesse dire qualcosa”. Certo, altri tempi, quelli della furia nazista, non paragonabili a quelli di questa Europa che ha anticorpi solidi contro eventuali rigurgiti totalitari. Ma non ho potuto non pensare a quella poesia quando, qualche giorno fa, ho assistito incredulo ad un lungo servizio del Tg1 di prima serata in cui, accompagnato da commenti benevoli e accondiscendenti del conduttore, è andata in onda una caccia ad una prostituta transessuale da parte di un’orda di giovani romani urlanti al “frocio” e la sua “cattura” da parte della polizia nel quartiere Prenestino di Roma. Questo non è un modo per combattere la paura. Così la si evoca e la si coltiva per utilizzarla a fini politici anche se, come l’apprendista stregone di Goethe, non si ha la minima idea di come governarla.

La realtà di una diffusa presenza di Rom in Italia è, come nel resto d’Europa, un tema spinoso, da governare con idee chiare e forti che non prescindano nemmeno per un attimo dal rispetto dei valori della nostra Costituzione e di quella Carta dei diritti fondamentali dell’unione Europea che diventerà vincolante per l’Italia nel 2009. Le ricette non sono facili ma non esistono scorciatoie. Questo paese non è abituato a confrontarsi in modo serio con il rispetto dei diritti delle minoranze. Pochi giorni fa Paolo Foschini, esponente bolognese di Forza Italia ha fornito un buon esempio di questa difficoltà, a proposito del Gay Pride e della richiesta del movimento lgbt di interventi contro le discriminazioni: “E’ la dittatura delle lobby – ha detto – per cui se dici qualcosa di diverso da me mi stai discriminando”. Dovremo fare ricorso alle risorse migliori della nostra cultura democratica per impedire uno scivolamento del paese verso la negazione dei diritti fondamentali delle persone. Perché se la campana inizia a suonare, un rintocco prima o poi arriva anche alle nostre orecchie.

Sergio Lo Giudice

Il Domani di Bologna, 24 maggio 2008

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