Una pessima gestione dell’ultima Assemblea nazionale del PD ha trasformato un dibattito sui diritti civili in un grosso danno nel rapporto con un’ampia parte dell’elettorato ( molto più ampia di quanto si pensi) e  in una nuova frattura con la comunità lgbt.  La presidente Rosy Bindi ha rifiutato qualunque mediazione rispetto ad un documento considerato da molti inadeguato facendo scoppiare nel modo più scomposto, e per questo meno utile, una contraddizione presente nel PD dalla sua nascita, la difficoltà di conciliare i valori fondanti del PD con una loro necessaria conseguenza: il riconoscimento dell’uguaglianza delle persone omosessuali e delle loro relazioni d’amore.

Lo Statuto del PD “riconosce pari dignità a tutte le condizioni personali, quali il genere, l’età, le convinzioni religiose, le disabilità, l’orientamento sessuale, l’origine etnica”. Il Manifesto dei Valori impegna il PD a “eliminare ogni violazione della dignità e della vita della persona, rimuovendo le cause che possono pregiudicarne lo sviluppo, e ogni discriminazione e violenza per motivi (…) di orientamento sessuale”.  Il Codice Etico afferma che “Le donne e gli uomini del Partito Democratico (…) contrastano ogni forma di discriminazione in nome dell’uguaglianza sostanziale”. Che a gay e lesbiche vada riconosciuta piena dignità sociale e uguaglianza di diritti, quindi, per il PD  è, e non può non essere, scontato. Che cosa impedisce allora di accogliere e declinare fino in fondo il principio della piena uguaglianza delle coppie dello stesso sesso attraverso l’estensione del matrimonio civile?

Una grande confusione, innanzitutto. A differenza della gran parte degli altri temi, sui diritti civili il PD sconta un difetto di approfondimento e di studio, non è un caso che il documento “Per una nuova cultura dei diritti” sia, innanzitutto, illeggibile. Una prolusione filosofica poi triturata dalle mediazioni di una commissione politica, buona a riflettere su alcuni contenuti molto importanti ma per nulla adatta a dare indicazioni per un’azione politica. Tant’è che la parte sulle coppie gay è stata oggetto di letture opposte, peraltro tutte legittime data l’estrema vaghezza delle espressioni usate.

Il PD, come l’intero sistema dei partiti e la stessa stampa, si occupa di diritti civili solo in caso d’emergenza. Fra il 2006 e il 2007 le unioni civili (nella versione dei Pacs e poi degli orribili DiCo) la fecero  da padrone, perché Prodi li aveva inseriti nell’agenda di governo e rischiò di rimanerci secco. In quei mesi ogni opinion maker disse la sua, producendo uno zibaldone di castronerie accanto ad un dibattito minoritario molto consapevole.  Poi il vuoto pneumatico, mentre l’Italia (e il PD) iniziavano a interrogarsi sul testamento biologico a seguito della coraggiosa battaglia di Beppino Englaro. Oggi l’onda internazionale di riconoscimento dei matrimoni gay (e i pronunciamenti favorevoli di Obama, Cameron, Hollande) e l’imminenza delle nuove elezioni  hanno riproposto il tema e non sarà facile eliminarlo dal dibattito dei prossimi mesi.

In secondo luogo una buona dose di ignoranza, se si vuol dare il beneficio della buona fede. Quando il mite Piero Fassino si attirava le ire dei gay con le sue affermazioni sugli impedimenti costituzionali al matrimonio same sex si era nel 2005, le organizzazioni lgbt italiane chiedevano i Pacs e quindi gli vanno riconosciute le attenuanti generiche. Quando Rosy Bindi lo ripete nel 2012, prevalgono le aggravanti. Non era più possibile sostenere questa tesi già dopo la sentenza della Corte Costituzionale 138 /2010, anche se diversi giuristi (fra cui il sen.Stefano Ceccanti, consigliere di Rosy Bindi nell’elaborazione dei DiCo) ci hanno provato. Continuare ad affermarlo dopo la pronuncia della Cassazione 4184/2012 non ha scuse.

Gilda Ferrando, una delle più autorevoli voci del diritto di famiglia italiano, lo ha scritto a chiare lettere:

“Il fatto che il giudice costituzionale abbia concluso che la famiglia «fondata sul matrimonio» sia intesa dalla Costituzione come riferita alle sole unioni fra persone di sesso diverso e che, di conseguenza, le norme del codice civile che escludono il matrimonio omosessuale possano essere ritenute conformi a Costituzione, non significa anche che il matrimonio omosessuale vada ritenuto ‘‘incostituzionale’’.

Lungi da opporsi alle trasformazioni della famiglia nella realtà sociale, e alla conseguente evoluzione normativa, il primo comma dell’art. 29 Cost. in qualche modo le asseconda in quanto il riferimento non è, in una prospettiva giusnaturalistica, a una famiglia di diritto naturale, ma a una famiglia intesa come organismo sociale che naturalmente evolve con la società in cui si colloca. “

La Corte Costituzionale ha stabilito, in soldoni, tre cose:

1. Il Parlamento non ha un obbligo costituzionale di estendere il matrimonio alle coppie omosessuali;

2. Il Parlamento non avrebbe nessun impedimento costituzionale a farlo, se lo volesse.

3. Il Parlamento ha l’obbligo di dare riconoscimento giuridico alla stabile convivenza fra due persone dello stesso sesso, cui spetta “ il diritto fondamentale di vivere una condizione di coppia ottenendone il riconoscimento giuridico”, come recita la sentenza del 2010.

Oggi i partiti, primo il Pd, hanno una sola possibilità di scelta, se non vogliono contravvenire alle indicazioni della Consulta e scatenare così una guerriglia giudiziaria a cui tante coppie gay e lesbiche hanno già dato avvio: estendere il matrimonio alle coppie dello stesso sesso (come hanno già fatto Olanda, Belgio, Svezia, Norvegia, Spagna, Portogallo, Islanda, Danimarca e si appresta a fare la  Francia) o dare vita ad un istituto giuridico equivalente, secondo l’esempio della Finlandia, della  Gran Bretagna o della Germania.

 

Sperare di fermare il dibattito, come aveva tentato di fare il documento Bindi, ad una generica previsione di “speciali diritti e doveri che sorgono dai legami differenti da quelli matrimoniali, ivi comprese le unioni omosessuali” significa guardare alla questione con gli occhi del decennio scorso, prima,  per citare un’altra decisione storica, che la Corte Europea dei Diritti Umani sancisse il “diritto alla vita familiare” delle coppie gay e lesbiche.

Questo Pierluigi Bersani l’ha capito bene, tanto che la proposta che ha esplicitato (e su cui la stessa Bindi è stata costretta a convergere) è quella di una legge sul modello tedesco o inglese, cioè il matrimonio con altro nome.

Oggi si parte da qui, da un’ipotesi che nessun leader del PD né dei partiti fondatori aveva mai formulato e che corrisponde alla proposta su cui il laico Ignazio Marino sfidò Bersani alle primarie del 2009. Bersani ha motivato questa opzione con gli ostacoli che troverebbe la proposta di matrimonio, nella situazione italiana,  ad andare in porto. Questo è oggi il terreno del confronto e del dibattito politico. Siamo certi che mancherebbe il consenso sociale? E siamo certi che mancherebbe il consenso politico? La situazione è molto fluida, la lotta delle organizzazioni gay e lesbiche continua ma anche il dibattito politico deve andare avanti senza pregiudizi e senza dare per scontato quello che scontato non è.

Se è vero, com’è vero, che il premier conservatore David Cameron ha schierato i tories per il matrimonio gay, e il repubblicano USA Mitt  Romney si è pronunciato a favore delle adozioni, se qui da noi Fini è per una legge sulle coppie gay e persino Fioroni ha detto sì alle Lebenspartnerschaft, niente va dato per scontato. Alle elezioni manca ancora un bel tratto. Il dibattito è aperto, fuori e dentro il PD.

Sergio Lo Giudice

 

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