Idomeni, fino a pochi giorni fa il più grande campo profughi d’Europa, anche dopo il suo sgombero rimane il segno di quel che non funziona nelle politiche di accoglienza dell’Unione Europea.
Sono andato a visitarlo per conto della Commissione diritti umani del Senato insieme a una delegazione composta da istituzioni e organizzazioni non governative di diversi paesi europei, su invito di Marco Perduca, ex senatore radicale, per conto della Open Society Foundation. Con noi anche diverse Ong italiane, da Arci a Asgi, dal Cir a Medici per i diritti umani.

Partiamo da Salonicco, a settanta chilometri dal campo posto a ridosso del confine greco-macedone, dove fino a pochi giorni fa si ammassavano più di ottomila persone, per lo più siriani, ma anche iracheni e afghani. Vorremmo raggiungere Idomeni, dove pare che anche dopo l’improvviso sgombero di pochi giorni fa siano rimaste un paio di migliaia di persone. Ma a pochi chilometri dal campo la polizia greca ci ferma: a Idomeni non ci si va. Torniamo indietro verso quegli altri campi informali sparsi nella zona dove a migliaia sono stati portati gli sfollati. Molti altri, forse la maggior parte, sono stati trasferiti nei campi ufficiali militari. Ma nei campi sotto il controllo dell’esercito si vive ancora peggio: non ci si può allontanare dal campo e la vita per le organizzazioni non governative è più difficile, se non impedirà, per cui la loro presenza è concentrata nei campi irregolari, mentre i servizi nei campi governativi, gli unici ufficiali, sono ridotti all’osso.

L’Hotel Hara è un motel attaccato a una stazione di servizio. Tutto il grande spazio antistante all’albergo è occupato da un centinaio di tende, così come anche l’altra stazione dall’altra parte della strada e un’altra posta un centinaio di metri più avanti. Le pompe di benzina sono chiuse. I proprietari hanno trovato più conveniente affittare quegli spazi a chi è in attesa di conoscere il proprio destino: pochi euro al giorno per ogni tenda, ma sono tante. Così quelle stazioni di rifornimento sono diventate campi fantasma, come la stessa Idomeni, irregolari ma ignorate, dove lo Stato è assente ma le Ong si danno da fare. Nell’hotel ci sono le cucine e gli allacciamenti idrici, ma quando arriviamo ci sono comunque le cisterne di Medici senza frontiere che distribuiscono l’acqua fra le tende.

Nura ha trenta giorni. È nata a Idomeni, come altri bimbi siriani della stessa età che abbiamo visto nelle tende. Suo padre mostra una felicità sincera, anche se velata dalla preoccupazione. Dice sorridendo nel suo inglese stentato che presto andranno via. Sì, ma verso dove? Un ragazzo ci racconta di essere riuscito ad arrivare fino in Serbia, ma dopo quindici giorni di galera è stato rispedito al punto di partenza.

Ali Rahma è un anziano commerciante e scrittore palestinese. È rifugiato per la terza volta nella sua vita. Ha lasciato un negozio a Damasco per provare a raggiungere le sue figlie in Olanda, ma qui è impossibile persino utilizzare le maglie del Regolamento Dublino per chiedere il ricongiungimento familiare. Ali si illumina in un sorriso solo quando ci dice che sta per arrivare un’altra sua figlia dagli Stati Uniti. Lei ha il passaporto americano e potrà venire a salutarlo, ma non per portarlo con sé. “Molti di noi vorrebbero solo tornare in Siria” -ci dice un ragazzo poco più che ventenne – lì se ti arriva una bomba in testa muori una volta sola.”

Anche il campo successivo si trova presso una grande stazione di servizio, su una superstrada che porta a Salonicco e circondata da una tendopoli che ospita duemila persone, per lo più siriani. Gli unici poliziotti bevono un caffè dall’altra parte della strada, dove c’è un distributore di benzina gemello ma senza tende. Anche questo non è un campo ufficiale. Qui al distributore Eko la presenza delle Ong si avverte eccome. Le tante sigle provenienti da diversi paesi europei svolgono le mansioni più diverse, dal pronto soccorso alla pulizia del campo. C’è anche una tenda adibita a nido per le mamme con bimbi piccoli. Manca l’Unicef e si vede. Centinaia di bambini scorrazzano per il campo o sostano all’ombra del distributore. Per loro solo dei corsi di inglese, nessun altro tipo di scuola. L’Unhcr ha piantato qui diverse tende, ma poi è andata via.

A differenza degli altri, questo distributore è funzionante. Le auto si fanno largo fra le tende. Quando arrivano alla pompa i bambini sciamano a vedere, salutare, magari a chiedere qualche soldo in cambio di una pita cotta in uno dei tanti fuochi del campo. Fino a qualche giorno fa c’era un impianto wi-fi che qualcuno ha rubato. Serviva non solo per i tanti telefonini, che si ricaricano in uno di quei distributori di energia elettrica dai tanti spinotti che si vedono negli aeroporti, ma soprattutto per rendere meno aleatoria quell’unica possibilità data ai rifugiati di fare richiesta di asilo: collegarsi attraverso skype con un account che non risponde mai, assaltato dalla migliaia di richieste di contatto. “Non voglio fare richiesta d’asilo in Grecia -ci dice un uomo che impasta il pane per i volontari francesi- perché so già che non avrei nessuna risposta.” In effetti da qui sembra che la strategia del governo greco sia di attendere che passi il clamore mediatico e la Macedonia riapra le sue frontiere.

Marco mi spiega che gli attuali ospiti dei campo non rischiano di essere rispediti in Turchia, perché sono in territorio greco da prima dell’entrata in vigore dell’accordo Ue-Turchia. Quindi si aspetta. In fondo in questi anni la Macedonia ha chiuso le frontiere sempre per periodi molto brevi, anche se stavolta potrebbe andare diversamente. Kemal, il nostro interprete palestinese, ha lavorato per molti mesi come mediatore a Idomeni e in questo campo per Medici senza frontiere. Ci racconta che finché ad attraversare le frontiere erano solo giovani uomini, la Macedonia era più propensa ad accoglierli. Adesso che sono soprattutto le famiglie a ritentare di ricongiungersi a marito, padri e figli, c’è stata la stretta. Qui non si tratta più solo di quella forza lavoro di cui in fondo l’Europa ha un gran bisogno, ma di offrire servizi sociali ed educativi che riducono il margine di guadagno sul lavoro degli immigrati per i paesi ospitanti.

Ripartiamo la sera per Atene dove incontreremo i rappresentanti del governo greco. Ma per evitare una nuova Idomeni e dare una prospettiva e quelle donne e a quegli uomini è l’Europa che dovrà trovare una strategia che non sia solo la somma delle paure nazionali. Come ci ha detto Ali salutandoci, non è questione di pane, ma di umanità: di guardarsi l’un l’altro negli occhi e riconoscersi come esseri umani.

Articolo pubblicato su Huffington Post

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