“Era il gennaio 1992 quando Bologna balzo agli onori delle cronache nazionali per le ‘case popolari ai gay’. Più precisamente, per avere deciso di consentire ai conviventi more uxorio da due anni, anche dello stesso sesso, di concorrere per l’assegnazione degli alloggi pubblici. il sindaco Renzo Imbeni e l’assessore alla casa Claudio Sassi finirono sulla graticola rischiando anche di finire all’inferno (‘Vorrà dire che Dio sarà più generoso in maledizioni’ fu il benevolo commento del cardinal Silvio Oddi).
Da allora il rapporto fra la comunità LGBT bolognese e la città si animava di una nuova centralità: quella delle famiglie formate intorno alle relazioni e agli amori fra persone lesbiche, gay, trans e, sempre più di frequente, dai loro figli. Non erano più solo la rivendicazione della propria identità personale e della propria libertà sessuale o la denuncia di omofobia e discriminazioni il fulcro della battaglia delle persone omosessuali e transessuali, ma la richiesta di un pieno riconoscimento della dignità delle proprie relazioni familiari.
All’inizio del 1999 il sindaco di Bologna Walter Vitali, a seguito di un dibattito acceso che aveva coinvolto la città, le associazioni gay, lesbiche e trans e il Consiglio comunale, dove sedeva la battagliera Marcella Di Folco, firmò la disposizione che istituiva l”Attestato di costituzione di famiglia affettiva’. SI trattava di una novità assoluta, una sorta di Registro delle unioni civili 2.0 – poi mutuato da tanti altri comuni fra cui Padova, Torino, Roma – che legava la registrazione delle convivenze di fatto al fondamento giuridico della legge anagrafica, rendendo così più solido quello che fino ad allora era stato solo un atto puramente simbolico voluto da tanti Comuni.
Il tema del riconoscimento della vita familiare delle persone LGBT ha animato in tante altre occasioni, alcune particolarmente frizzanti, il dibattito cittadino. Basti pensare alla polemica scoppiata nel 2011 per l’ingresso nella Consulta comunale delle associazioni familiari di Famiglie Arcobaleno, l’associazione delle famiglie omogenitoriali, e di Agedo, quella dei genitori di gay e lesbiche. O alla decisione di Virginio Merola, nel settembre 2014 di trascrivere nel registro anagrafico i matrimoni fra persone dello stesso sesso contratti all’estero, poi cancellati dal Prefetto a seguito della battaglia ideologico-burocratica scatenata dal del ministro Alfano. O ancora alla istituzione del Modulo di autocertificazione delle famiglie omogenitoriali varato nel 2015 dall’assessora alla scuola Marilena Pillati per garantire piena agibilità a due genitori dello stesso sesso nell’accesso ai servizi scolastici ed educativi del Comune.
Oggi quella lunga, bella e difficile storia per l’affermazione civile di un pezzo di società arriva ad un suo primo importante compimento – in attesa che anche in Italia si apra finalmente l’accesso puro e semplice al matrimonio civile – con la celebrazione nella Sala Rossa del Comune, della prima unione civile, quella fra Anna ed Eleonora. Con loro il bimbo di Eleonora. Quel motto delle Famiglie Arcobaleno, ‘É l’amore che crea una famiglia’, che Anna ed Eleonora hanno voluto tatuare sulla loro pelle, da oggi é tatuato anche sulla pelle di Bologna”. Lo ha scritto su Facebook il senatore del Partito Democratico Sergio Lo Giudice.

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