Oggi ho chiesto la parola nell’aula del Senato per commemorare Aldo Braibanti.


Il testo del mio intervento

Ieri si sono svolti a Piacenza i funerali di Aldo Braibanti, partigiano, filosofo e artista scomparso domenica scorsa a 91 anni nella sua casa di Castell’Arquato. Braibanti era stato vittima di una delle pagine più buie della storia dell’Italia repubblicana: processato e condannato, unico caso al mondo nel secolo, per il reato di plagio.

Aldo Braibanti era nato a Fiorenzuola d’Arda il 17 settembre 1922. Da lì si era trasferito a Firenze per studiare filosofia ma nel 1940 era entrato in clandestinità per partecipare ai movimenti partigiani, prima con Giustizia e Libertà , poi con il Partito Comunista. Per due volte era stato arrestato, la prima volta insieme a Ugo La Malfa, la seconda volta torturato dalla famigerata “Banda carità”, le sue opere sequestrate e distrutte dalle SS.
Poeta, scrittore , autore teatrale e cineasta, “un genio straordinario” secondo Carmelo Bene che racconterà come il giovane Aldo gli avesse insegnato a leggere in versi.

A partire dal 1947 Braibanti aveva dato vita a Castell’Arquato ad una comunità di artisti e intellettuali, insieme a Sylvano Bussotti e a Marco Bellocchio, col quale partecipò alla fondazione dei Quaderni Piacentini prima di trasferirsi a Roma insieme al suo compagno.
Ma quell’Italia non poteva tollerare una relazione omosessuale fra due persone maggiorenni vissuta alla luce del sole. Così il padre di Giovanni, il suo compagno, lo denunciò per plagio, un reato inserito in età fascista nel codice penale e mai applicato prima, non presente in nessun codice penale del mondo.

Così l’artista eclettico, l’ex partigiano e poi responsabile toscano dei Giovani Comunisti divenne suo malgrado protagonista di uno dei processi più clamorosi del secolo.

Accusato di essere un “ladro d’anime” , un “diabolico invasore di spiriti” ” la reincarnazione del demonio”, Braibanti divenne il capro espiatorio di un’Italia ancorata al passato, terrorizzata dai forti cambiamenti sociali che stavano all’orizzonte della storia europea, desiderosa di reprimere col pugno di ferro qualunque turbativa all’ordine morale e sessuale costituito.

A nulla valse la difesa pubblica del giovane intellettuale da parte di Umberto Eco, Dacia Maraini, Alberto Moravia, Guido Calogero Pier Paolo Pasolini, Marco Pannella. Il processo all’omosessualità intesa come motore di corruzione morale del Paese doveva andare in scena.
Così nel 1968 Braibanti venne condannato a nove anni di reclusione , poi ridotti a quattro, e rinchiuso a Regina Coeli, mentre il suo compagno finiva in manicomio, sottoposto a ripetuti elettroshock e a shock insulinici per “guarirlo” dalla sua omosessualità.
In carcere Aldo rimase per due lunghi due anni. Vi uscì il 5 dicembre 1969, in un’Italia che stava cambiando, otto giorni dopo l’approvazione della legge sul divorzio alla Camera.

Il reato di plagio, mai più applicato, sarebbe stato cancellato dal nostro ordinamento solo nel 1981 con sentenza della Corte Costituzionale e non per libera volontà del Parlamento: con la barbarie occorsa a Braibanti l’Italia non aveva ancora fatto i conti.
Dopo la scarcerazione, anticipata a causa del suo impegno come partigiano, Braibanti continuerà la sua attività di scrittore, poeta, autore teatrale e videomaker.

Solo quando nel 2005, povero e ultra ottantenne, sarà sfrattato dalla vecchia casa in cui viveva da quarant’anni, lo Stato compierà un gesto di risarcimento. Nel novembre 2006 il governo Prodi assegnerà all’artista piacentino un vitalizio in base alla legge Bacchelli.
Termino questo breve ricordo con le parole di Pier Paolo Pasolini, come lui bersaglio di un vecchio ordine sociale che non accettava il pensiero libero:

“Se c’e un uomo «mite» nel senso più puro del termine, questo è Braibanti: egli non si è appoggiato infatti mai a niente e a nessuno; non ha chiesto o preteso mai nulla. Qual è dunque il delitto che egli ha commesso per essere condannato attraverso l’accusa, pretestuale, di plagio? Il suo delitto è stata la sua debolezza. Ma questa debolezza egli se l’è scelta e voluta, rifiutando qualsiasi forma di autorità: autorità, che, come autore, in qualche modo, gli sarebbe provenuta naturalmente, solo che egli avesse accettato anche in misura minima una qualsiasi idea comune di intellettuale: o quella comunista o quella borghese o quella cattolica, o quella, semplicemente, letteraria… Invece egli si è rifiutato d’identificarsi con qualsiasi di queste figure – infine buffonesche – di intellettuale”.

Intervento pubblicato sull’Huffington Post

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