Con altri parlamentari che hanno sostenuto Pippo Civati abbiamo chiesto a Matteo Renzi alcuni chiarimenti sulla natura, gli obiettivi e i programmi del governo che si appresta a formare. Possibilmente prima del voto di fiducia, perchè uno si fida di più se sa di cosa si sta parlando.
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“LETTIANI E CIVATIANI CONTRO RENZI”
FONTE: ITALIA OGGI
La tenaglia. È quella che potrebbe, subito o in seguito, stritolare Matto Renzi. Da una parte i supporter di Enrico Letta, per nulla convinti di dovere ingoiare il boccone senza reagire, dall’altro i seguaci di Pippo Civati, che considera una bestemmia le larghe intese. Un’alleanza imprevedibile poiché Civati fu l’unico a schierarsi contro il governo Letta.
Le due parti potrebbero decidere di chiudere la tenaglia e per Renzi sarebbero dolori.
Le prove di dissenso stanno già avvenendo. Al centro come in periferia lettiani e civatiani urlano al tradimento. Che la fronda sia una cosa seria lo conferma il segretario (cuperliano) del Pd bolognese, Raffaele Donini, che in tutta fretta ieri ha convocato i parlamentari locali e poi ha emesso un comunicato perché non ci siano dubbi: «chi vota contro il governo è automaticamente fuori dal Pd». L’apparato fatica a tenere a bada una base che ha assistito attonita al golpe renziano dopo che aveva appena archiviato la doccia fredda dell’insuccesso di Pierluigi Bersani e l’abbraccio col Cavaliere di Letta. I parlamentari locali sentono il fiato sul collo. Ecco due esempi. Il primo è un senatore messinese ma residente (ed eletto) a Bologna, alla sua prima legislatura, Sergio Lo Giudice, dal 1998 al 2007 presidente dell’Arcigay, di cui ora è presidente onorario. Guida l’ala dura del civatismo, quella che vorrebbe violare la disciplina di partito e non votare il governo Renzi. Ma come non essere espulsi dal Pd? Si cerca un compromesso: astenersi, oppure rimanere fuori dall’aula. Ma il no al governo Renzi deve risuonare forte e chiaro. L’irriducibile Lo Giudice dice, sarcastico: «Andrò volentieri nei circoli a spiegare la scelta di blindare le larghe intese fino al 2018 ma prima serve che qualcuno la spieghi a me perché non l’ho capita. E se l’ho capita non mi é piaciuta».
Quanto alla fiducia: «abbiamo chiesto spiegazioni, fino ad adesso sono state insufficienti, da esse dipenderà il nostro comportamento. Non vogliamo la scissione, tutt’altro. Non ci si può chiedere di accettare (e votare) a scatola chiusa. Non si tratta di qualche senatore che non vuole votare la fiducia ma di un’area politica nel partito e di 300.000 elettori alle primarie che hanno dato la loro preferenza a Civati. Ebbene, abbiamo posto questioni relativamente sia ai contenuti su cui si va a fondare il nuovo governo sia agli obiettivi che questo cambio di premiership vuole portare con sé sia rispetto al come si sta costruendo la nuova alleanza, ma non abbiamo avuto risposte».
La conclusione è che i civatiani sono sulla riva del fiume, loro che non volevano le larghe intese ora se le vedono propinare. Come spiega, Elly Schlein, l-italo-americana laureata in giurisprudenza a Bologna, membro della direzione Pd in quota Civati, dove non ha votato la proposta Renzi: «Chiediamo di fare la nuova legge elettorale e poi andare al voto. Non si tratta di dubbi su Renzi o Letta, ma è lo schema, ci tocca fare la parte di coloro che dicono sempre no, mentre chi ha sostenuto Letta e le larghe intese ha votato compattamente per cambiarlo. La fiducia? Non è scontata, alcuni parlamentari Pd non si sentono proprio a loro agio, non conosciamo il programma, non sappiamo chi saranno i ministri_».
Va ancora più in là l’ex-giornalista del Tg3 diventato ultracivatiano, Corradino Mineo: «Civati ha parlato di un Nuovo Centro Sinistra che sostituisca il Nuovo Centro Destra di Alfano. Credo che pensi a una pattuglia di senatori Pd (i sei o sette «civatiani» – Albano, Casson, Mineo, Ricchiuti, Tocci, forse Puppato) – qualche altro che alle primarie ha votato per la mozione Cuperlo ma non ha approvato l’ultimo sì in direzione. Più Sel, più una parte dei senatori M5s, quella che, pur non rinunciando alle idee del movimento, vuole però far politica e non si rassegna a consumare quella esperienza in una deriva solipsista e identitaria. Dice Civati: «Se c’è la volontà di costruire un percorso con un governo più coraggioso, magari qualcuno (tra costoro) si muove». E con ciò rivela di pensare non a un’operazione contro Renzi, ma a una sfida a Renzi per tirarlo fuori dalle sabbie mobili in cui è finito».
Dai civatiani ai lettiani, l’altro polo della tenaglia. Uno dei parlamentari più vicini a Letta è Enrico Borghi, sindaco di Vogogna in Piemonte.Borghi, come tutti i lettiani, fa buon viso a cattiva sorte ma si toglie qualche sassolino dalla scarpa. «Si è trattato di una crisi extraparlamentare», afferma, «nel più puro stile Prima Repubblica (anzi no, la Dc aveva più stile, ammettiamolo, perché faceva cadere il primo ministro con un incidente parlamentare, non con una sfiducia palese della direzione). È avvenuta una sostituzione in corsa del capo, senza passare dalle urne, ma con un’operazione che in altri tempi sarebbe stata bollata irrimediabilmente come «partitocratica». Una perdita dell’età dell’innocenza per una generazione intera che si scopre improvvisamente orfana della rivoluzione, e quasi attonita nel dover assistere al fatto che tutti gli sforzi sono serviti solo per vedere associato il proprio paladino a quel Massimo D’Alema indicato in tutti gli angoli come il simbolo dell’inciucismo, da spazzare via con il lavacro delle primarie, con la religione della vocazione maggioritaria e con il richiamo salvifico ad un bipolarismo che appare sempre più come quella rivoluzione proletaria che in altri tempi doveva avvenire ma che non avveniva mai. A cui si aggiunge un fin troppo sospetto quasi unanimismo del partito. È possibile, anzi probabile che terminata la fase «rivoluzionaria» ora si assista al riflusso interno al Pd».
Ma il superlettiano va oltre e la sua analisi è spietata, tanto che è lecito interrogarsi su come si comporterà (e con lui almeno i più fedeli colleghi) al momento del voto di fiducia: «È finita la fase della tattica, ed inizia quella della strategia. Sin qui sul piano della tattica (e della velocità) Renzi è stato al tempo stesso spregiudicato e vincente. Ha piegato pressochè ogni cosa all’espediente tattico per raggiungere l’obiettivo vero, che aveva in mente fin dall’inizio. Visti gli esiti, tutti i passaggi di volta in volta presentati come ultimativi, essenziali e fondativi addirittura dell’identità di un partito (le primarie, la riforma della legge elettorale, la modifica della Costituzione) si dipanano in realtà come funzionali e strumentali gradini di una scala che oggi conduce direttamente al primo piano di Palazzo Chigi, sia pure passando dalla porta di servizio lato Montecitorio piuttosto che dal portone principale lato elezioni a suffragio universale diretto. Ora la tattica deve lasciare il posto alla strategia, e qui arrivano i primi scogli. Anzitutto fatti da una natura della base parlamentare del tutto analoga ed uguale a quella che sorreggeva il governo Letta. E non si capisce, se non si vuole conferire al volitivo piglio del segretario-presidente una potenza politica eccessiva, come sia possibile mutare la radice politica di una coalizione dove insieme al Pd persistono (in posizione determinante numericamente sul piano parlamentare) soggetti politici dichiaratamente di centro destra (Ncd di Alfano), altri che in Europa stanno con i conservatori del Ppe ai quali, con qualche entusiasmo giovanilista un po’ naif, si immagina di appiccicare spezzoni di grillini in libera uscita e nelle idee di qualcuno anche una costola di Sel pronta a correre in soccorso al nuovo inquilino di Palazzo Chigi». Quindi pollice verso contro il governo. Forse Renzi farebbe bene oltre che a consultare gli altri partiti, ad avviare consultazioni anche dentro il Pd.
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