#ilpdnelmondochecambia Il mio intervento all’iniziativa di sabato 12 dicembre
Il testo del mio intervento
“Quel giorno, non so proprio perché, decisi di andare a correre un po’, perciò corsi fino alla fine della strada, e una volta lì pensai di correre fino alla fine della città. Pensai di correre attraverso la contea di Greenbow. Poi mi dissi: visto che sono arrivato fino a qui tanto vale correre attraverso il bellissimo stato dell’ Alabama, e cosi feci. Corsi fino all’oceano e, una volta lì mi dissi: visto che sono arrivato fino a qui tanto vale girarmi e continuare a correre”.
In un paese disilluso dalla promessa mancata di una riforma liberale e modernizzatrice, mito fondativo del ventennio a trazione berlusconiana, morso da una crisi economica senza precedenti da molti decenni, provato dall’esperienza di un governo tecnico che mentre imponeva misure di austerità mostrava i limiti strutturali della nostra sovranità nazionale, stanco di un contesto in cui il privilegio prevale sul diritto, gli italiani hanno ribaltato il tavolo e hanno detto che così non andava e che bisognava cambiare.
É stato allora che, come Forrest Gump, ci siamo messi a correre senza avere deciso dove andare.
In quel momento la velocità, il cambiamento, la capacità di assumere decisioni rapide sono diventate non strumenti al servizio di una visione ma il merito delle nostre risposte alle preoccupazioni del paese.
La necessità di un rinnovamento ha assunto il nome ruvido a inadatto agli umani della rottamazione. E nel nome della rottamazione, del cambio della guardia, della novità si è costruito il consenso.
Ci è stato chiesto di cambiare verso senza conoscere la direzione.
Ma la rottamazione è rimasto uno slogan utile a una sostituzione di alcuni nomi e alcune facce e si è trasformata in una promessa mancata. Perché gli assetti del potere si sono ricomposti senza troppi traumi e molti rottamandi sono diventati alfieri del cambiamento.
Perché i motivi del nostro scollamento con un paese stremato e ansioso di nuove risposte non sono stati superati. E invece si è tentato di rottamare qualcosa che è parte fondante della nostra democrazia: la partecipazione ai processi decisionali, la rappresentanza dei corpi sociali, il pluralismo delle opinioni come strumento per arrivare a soluzioni condivise.
E mentre Renzi spostava verso il centro l’asse del Partito democratico noi stessi siamo rimasti spiazzati. Perché difendere le ragioni della sinistra ci ha distratto dalla necessità di ripensarle e la consapevolezza di essere guidati nel verso sbagliato ci ha impedito la necessaria riflessione critica sugli errori e le inadeguatezze delle risposte tradizionali della sinistra alle trasformazioni in corso e alle nuove aspettative.
Allora, se vogliamo pensare un’alternativa all’idea vecchia e di destra del superamento dello schema destra/sinistra, dobbiamo ripensare a noi stessi.
Dirci, ad esempio, che noi dobbiamo essere quella sinistra, quel centrosinistra, che non considera le esigenze dell’ambiente, la tutela del suolo, la sostenibilità dello sviluppo economico, l’aria delle nostra città sempre subordinate a qualcos’altro, alle esigenze produttive, alla creazione di posti di lavoro, alla tenuta dei conti, ma pensa a costruire un nuovo modello economico fondato su nuove politiche ambientali intese anche come opportunità economica e propone all’Italia di fare la sua parte fino in fondo, a partire dai necessari investimenti economici, per ridurre l’inquinamento del pianeta.
Perchè le trivellazioni dei nostri fondali marini non sono il nuovo ma il vecchio vizio di pensare all’ambiente come ad una variabile secondaria, tranne che quando c’è da enunciare i principi alla Conferenza sul clima o in altre vetrine internazionali.
Dobbiamo essere quella sinistra che assume la questione della legalità come una priorità assoluta in un paese corroso dalla criminalità organizzata, dalla corruzione politica ed economica, dall’evasione fiscale diffusa. Perché il germe della distanza dallo Stato e un male oscuro e antico dell’Italia, terra di corporazioni e campanili, di appartenenze partitiche, religiose, familiste, tribali nemiche di un rapporto sano fra cittadini e istituzioni nel nome del bene comune. E dobbiamo ribadire che, per stare a un tema di questi giorni, elevare la soglia del contante per consentire la diffusione di un po’ di nero é il vecchio che afferra il nuovo e che una scelta simile nuoce ad altre misure che pure questo governo ha messo in campo per contrastare la corruzione, minandone la forza culturale.
La difesa necessaria del lavoro dipendente da una maggiore precarizzazione e dei pensionati dal rischio di scivolamento nella povertà non deve farci perdere di vista la situazione di quei giovani sotto i 35 anni che secondo l’Inps andranno in pensione a 70 anni con una pensione inferiore del 25% a quella dei loro genitori. O di quelle partita IVA che rappresentano la sfida di tanti giovani esclusi dalla prospettiva di un impiego ma che si sentono esclusi anche dalla rappresentanza sindacale e politica.
Abbiamo teorizzato la flessibilità senza precarizzazione ma non siamo riusciti a percorrere con convinzione la strada di un approccio nuovo e diverso alle politiche per il lavoro. Così oggi siamo partecipi di una flessibilizzazione a rischio di aumento della precarietà, di una flexsecurity senza security.
Dobbiamo superare quella inadeguatezza tutta italiana ad affrontare senza ipocrisie le questioni relative ai diritti civili, alle nuove famiglie, all’autodeterminazione di donne e uomini di fronte alle scelte che riguardano la vita e la morte, alla laicità delle istituzioni pubbliche. Soprattutto in una fase in cui soffia di nuovo il vento dello scontro fra religioni, sostenuto ad arte dagli imprenditori della paura e dai professionisti degli opposti integralismi. “Non avrete il mio odio”, ha scritto dopo i fatti di Parigi un giovane giornalista francese a cui i terroristi avevano ammazzato la moglie. E’ una lezione per tutti noi: vogliono trascinarci in un baratro d’odio perché sostituiamo la libertà con la sicurezza, il pluralismo di idee con lo scontro fra civiltà, la laicità dello stato con una nuova crociata anti islamica. E invece è proprio nel richiamo ai principi di pluralismo, laicità, libertà su cui si fondano le nostre democrazie che troveremo le risposte per sconfiggere il terrorismo sul piano culturale.
Dobbiamo fare della trasparenza a tutti i livelli, dai bilanci ei partiti ai criteri di nomina dei dirigenti pubblici, una nostra carta di identità e restituire alla politica la sua aura positiva di luogo di progresso civile e democratico anche definendo i limiti dell’azione dei partiti, a iniziare dall’assunzione dei criteri di merito e indipendenza per tutte le nomine in organi di garanzia, dall’elezione dei giudici costituzionali alle Authority.
E poi ci siamo noi, il Partito Democratico, l’unica forza su cui questo paese può contare per una prospettiva di futuro. Un partito trascurato da una previsione statutaria, quella della coincidenza fra il segretario e il candidato premier, che ha mostrato la corda alla prima occasione in cui quella sovrapposizione è diventata reale. Un partito fuori controllo in tante zone, come abbiamo visto a Roma, con pezzi del nostro partito intrigati nel verminaio della corruzione, o a Messina, dove dieci consiglieri comunali su tredici sono passati dal Pd a Forza Italia seguendo chi avevamo scelto come nostro segretario regionale e si è ritrovato indagato per truffa e frode fiscale: due casi in cui riusciamo ad intervenire dopo, secondo la logica del commissariamento, ma su cui non siamo stati capaci di intervenire prima. E ,così potrebbe succedere ancora, a partire dalla Campania.
Abbiamo bisogno di un partito se vogliamo che il nostro progetto cammini sulla gambe e si alimenti delle idee di tante donne e tanti uomini.
Abbiamo bisogno di un partito di centrosinistra, che non abbandoni l’intuizione dell’Ulivo , di una forza che facesse vivere e crescere insieme i riformismi italiani, quello di tradizione socialista, quello cattolico democratico, quello azionista liberale . Con la consapevolezza che quella sfida non era, come poi è invece accaduto in più occasioni, quella di trovare una sintesi statica e stanca fra culture consolidate, ma di utilizzare quelle risorse come linfa per un progetto politico nuovo, innestato delle nuove culture politiche immateriali , da quella ambientalista a quella dei diritti civili.
Il PD è nato con l’obiettivo ambizioso e rischioso della vocazione maggioritaria. Ma questa scommessa su un’autosufficienza che superasse la rissosità di coalizioni infinite era intimamente legata alla prospettiva di un sistema bipolare, di cui noi avremmo occupato il lato sinistro. Ed era legata all’idea di un partito plurale, in cui diverse anime potessero trovare, nelle occasioni di un dibattito interno, le ragioni per superare la frammentazione di una logica di coalizione.
In pochi mesi queste caratteristiche fondative sembrano essere state messe in discussione, e il centrosinistra unito ma plurale sembra lasciare spazio alla tentazione crescente di un partito della nazione centrista e leaderistico.
Bene hanno fatto i tre sindaci di Milano, Cagliari e Genova, figli di un centrosinistra unito e di primarie aperte, a richiamarci ad una unità “aperta e larga” del centrosinistra. Ed è inquietante che la risposta più visibile dall’entourage renziano , quella del sindaco di Firenze, sia stato un secco “no grazie” accompagnato dall’evocazione di un partito della nazione che vada oltre la distinzione fra destra e sinistra , si affidi a un leader forte, si schiacci sull’azione del governo e si identifichi nella parola d’ordine della “fiducia nel futuro”. Da una parte il partito della responsabilità e dall’altra tutti gli altri. Una ricetta che rischia non solo di farci perdere l’anima, affiancando a un populismo antisistema un plebiscitarismo leaderistico e indifferenziato a sua volta demagogico, ma rischia anche di farci perdere le elezioni perché la logica del tutti contro uno è incompatibile con quell’Italicum così fortemente voluto dal premier. Il Partito della Nazione non è il Partito Democratico né si pensi di metterci di fronte al fatto compiuto di alleanze stabili con la destra senza avere sottoposto a un congresso questa mutazione genetica del PD.
Come ci ha ricordato più volte Piero Ignazi, il nostro consenso potenziale, quello che potrebbe condurci dall’attuale 30% dei sondaggi al 40% previsto dalla nuova legge elettorale per sfuggire a un ballottaggio ad alto rischio, non arriverà dal bacino tradizionale e statico della destra. Arriverà, se arriverà, da quei tanti ex elettori di centrosinistra delusi che si sono collocati nell’astensionismo, per disamore o per darci un segnale preciso. E arriverà, se arriverà, da quei tanti giovani che non ci votano, perché non ci identificano come una reale forza di cambiamento e magari votano invece il M5S, rispetto a cui, ai loro occhi , noi non rappresentiamo quella alternativa di affidabilità e di coerenza, di onestà che vorremmo e potremmo essere.
Noi non rinunceremo a batterci dentro al Partito Democratico perché si inverta questa rotta, consapevoli che il processo di riforme deve andare avanti ma che la direzione va ripensata.
Renzi ha espresso una posizione condivisibile sulla Siria, nel merito – no all’ingresso in guerra – e nelle motivazioni : non si buttano le bombe senza un chiaro progetto politico per il dopo.
Nostro compito sarà di fare in modo che questa modalità – decidere dove andare prima di mettersi a correre – guidi l’azione del partito democratico in ogni campo.
Lo faremo con determinazione e con passione, per provare a invertire quella tendenza per cui la disaffezione e la noia diventano i tratti prevalenti del rapporto fra i cittadini e la politica.
Perché con la noia si perde, con la passione si vince.
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