In questi giorni si riunisce l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. In quella sede sarà posta la questione grave e urgente degli stupri di guerra. Un costante corollario d’orrore alle guerre degli uomini.

I dati raccolti negli ultimi anni sono impressionanti: 50mila donne violentate in Bosnia, 200mila in Congo, 40mila in Liberia e molte altre in Cecenia, Darfur, Iraq, Libia, Ruanda. Un atto predatorio di
guerra, uno sfogo alla libidine violenta acuita dall’eccitazione degli scontri, ma anche un mezzo per umiliare il nemico stuprandogli le madri e le figlie per stuprarne la dignità, l’identità, la discendenza.

Soprattutto, il supremo gesto di potere dell’uomo, sotto ogni bandiera, sulla donna comunque oggetto di sottomissione violenta, ogni volta che questo divenga possibile.

Questo tema che ci interroga non da testimoni ma da potenziali protagonisti e complici di questo orrore. Come scrisse Hanna Arendt ne La banalità del male a proposito dei crimini nazisti: “Le azioni erano mostruose, ma chi le fece era pressoché normale, né demoniaco né mostruoso”.

Gli italiani sono brava gente quando non si toccano i loro Interessi e non sono stati razzisti solo finché non sono arrivati gli immigrati. L’Italia non é da decenni teatro di guerra né motore di guerra. Ma non
é stata immune da quelle pratiche di sopraffazione brutale quando se ne è verificata l’opportunità.

La nostra stessa storia patria ha uno dei suoi miti fondativi nel ratto delle Sabine, un racconto per bambini nella nostra memoria, in realtà un’orribile violenza sessuale di massa. Tante altre volte le donne italiane hanno dovuto subire lo scempio dello stupro di guerra.

Nel secolo scorso questo è accaduto, ad esempio, nel 1917 ad opera delle truppe austro tedesche dopo la disfatta di Caporetto. È accaduto dopo il ’43 ad opera dei tedeschi nell’Italia occupata e nel ’44 ad opera delle truppe alleate, dalle cosiddette “marocchinate” immortalate nella Ciociara da Moravia e poi da De Sica, alle 40.000 donne italiane costrette dalla fame e spesso dalla violenza subita a
prostituirsi con gli angloamericani.

Ma non va taciuto il comportamento di tanti uomini italiani nella situazione in cui questo è stato possibile. Le cronache della conquista dell’Eritrea dal 1988, della riconquista fascista della Libia fra il 1930 e il 1931, della campagna di Grecia di un decennio dopo sono piene di stupri feroci delle truppe italiane verso le donne dei popoli oggetto di conquista. E tanti sono gli episodi accertati di violenza sessuale contro donne partigiane da parte di fascisti repubblichini dopo il ’43.

La violenza brutale degli uomini verso le donne che oggi il Senato ha chiesto all’Onu di stigmatizzare e combattere non è un fatto esotico e lontano ma ci riguarda direttamente. Coinvolge il modo in cui anche da noi si costruiscono i rapporti fra i generi, troppo spesso fondati sul potere e su un malinteso e non più esigibile sentimento di superiorità maschile. “Siate voi il cambiamento che volete vedere nel mondo” è stata la profezia di Ghandi alla sua generazione e alle successive.

Se l’Italia vuole contribuire a cambiare il rapporto ineguale fra i generi nel mondo deve portare a compimento un lavoro faticoso sulla propria stessa cultura. Anche la discussione di questi giorni su una buona legge contro la violenza di genere e il femminicidio potrà essere un banco di prova di una reale volontà del nostro Paese di intervenire su uno dei nodi irrisolti della propria identità culturale.

Articolo pubblicato sull’Huffington Post
http://www.huffingtonpost.it/sergio-lo-giudice/stupri-di-guerra-un-tema-che-ci-riguarda_b_3996513.html?utm_hp_ref=italy

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