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Foto Claudio Cricca

Il trenino delle Famiglie Arcobaleno, con tante mamme (e qualche papà) e tantissime/i bambine/i, ormai così grandini da pretendere di tenere loro lo striscione. A quei sepolcri imbiancati che parlano di strumentalizzazione, offro un ricordo personale: io a sei, sette anni, travestito in gonna di pizzo bianco e sottoveste nera a sfilare per la città in processione. Almeno questi bambini ascoltavano musica divertente, a me toccava ascoltare canti gregoriani.

Le mamme e i papà dell’Agedo che urlavano a squarciagola “Etero o gay son sempre figli miei”. I primi tempi notavo ammirato quanto bene stessero facendo questi genitori coraggiosi ai loro figli. Ora vedo anche quanto bene hanno tratto essi/e stessi/e dai loro, per cui hanno provato prima angoscia e dolore, poi ammirazione e di cui, alla fine, hanno deciso di condividere il coraggio di sfidare i pregiudizi e l’impegno militante. Ora, come i loro figli, al Pride si divertono come bambini.

Ritrovare per strada o in corteo – nella mia città, dopo 14 anni – oltre a gli amici e le amiche di ogni Pride, tante facce a me note, della politica cittadina o di altri contesti , sinceramente contente di condividere questo spazio di libertà che avevamo costruito.

L’impegno di Cofferati a intitolare una strada a Stefano Casagrande che, fra l’altro, era stato l’infaticabile organizzatore del Pride nazionale di Bologna del 1995. È grazie anche a Stefano se siamo arrivati/e qui. E, mi hanno detto, per strada c’era anche Samuel Pinto, primo motore del Cassero nel 1982.

Le cose più brutte (alcune strumentalizzazioni politiche da destra e da sinistra, le cronache ignobili di alcuni quotidiani locali, i rozzi insulti del vescovo, le prevaricazioni gratuite dei soliti quattro violenti della via Paal, che confondono il Pride per il congresso di sessuofobia di Sanremo nel ’72) sono già volate via.

Sergio Lo Giudice

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