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La Repubblica Bologna – 24 giugno 2008

Sergio Lo Giudice

Dalle pagine de l’Avvenire l’arcivescovo di Bologna ha messo in guardia dalle teorie di genere, mescolando piani diversi che meriterebbero riflessioni specifiche. Il concetto di gender è un prodotto della riflessione culturale del movimento delle donne. Indica che, al di là della differenza biologica, esiste una costruzione storicamente determinata del maschile e del femminile che condiziona i modelli sociali e di relazione, i ruoli e le funzioni. Questa differenza fra sesso e genere permette di storicizzare la divisione impari di ruoli fra donna e uomo come prodotto culturale e non come segno di una presunta subordinazione naturale dell’una all’altro. Subordinazione tuttora presente nella chiesa cattolica, che nega la possibilità del sacerdozio femminile motivandola con una sua “naturale” inadeguatezza e, fino alla riforma del diritto di famiglia del 1975, persino nella legislazione italiana che considerava la donna come subordinata all’uomo all’interno del nucleo familiare.

Operare una distinzione concettuale fra sesso biologico e genere sociale non rappresenta l’affermazione di un conflitto strutturale fra natura e libertà ma, al contrario, una maggiore consapevolezza di questa relazione. È vero che può determinarsi una distonia fra il sesso biologico e l’identità psicologica di genere. È il caso delle persone transessuali o transgender che in tutto l’Occidente (ma a loro modo anche in paesi insospettabili come Cuba o l’Iran) sono considerate portatrici di una legittima istanza di riconoscimento. La legge italiana riconosce la possibilità di riattribuzione chirurgica del sesso sin dal 1982 e la direttiva europea 54 del 2006 estende il principio di parità di genere a chi ha cambiato sesso.

Le persone transessuali sono le ultime a pensare che la loro identità sia fondata su una sorta di scelta culturale o su un atto di libera volontà. Al contrario, è sul riconoscimento sociale della loro natura reale, della loro identità profonda, che fondano le loro richieste. Mons. Caffarra fa discendere dalla sua critica alle teorie sul gender un disvalore delle relazioni omosessuali. Ma orientamento sessuale e identità di genere non sono due variabili correlate e la gran parte delle persone omosessuali non mettono per nulla in discussione l’appartenenza al proprio sesso biologico. Una critica delle relazioni omosessuali fondata sulla questione del genere è semplicemente un equivoco. Rimane la tradizionale negazione della dignità delle coppie omosessuali, considerate come relazione di identici, cioè con se stesso.

Per molto tempo sono stati posti ostacoli di ogni tipo alla costruzione di rapporti stabili e soddisfacenti, basati su amore e progetti comuni, da parte delle persone lgbt (lesbiche, gay, bisessuali, trans). Oggi queste relazioni esistono, sempre di più, sempre più stabili. Quella sorta di solitudine coatta a cui la norma sociale aveva condannato un parte consistente della popolazione è stata sostituita, per la prima volta nella storia, dalla realtà concreta della costruzione di famiglie omosessuali. Non migliori né peggiori delle altre, ma fondate sull’amore reciproco e un’assunzione comune di responsabilità. L’idea che l’affetto fra due ragazzi gay e la loro voglia di mettere su casa o la dedizione di una mamma lesbica e della sua compagna verso i bambini che stanno crescendo insieme siano nocivi alla società fa parte di un pregiudizio ancora radicato ma destinato a cedere di fronte alla realtà concreta e visibile di relazioni positive fondate sull’accoglienza e sull’amore. E l’amore non è mai un pericolo sociale.

rassegna-stampa-caffarra-su-pride-231008.pdf

 

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