La rivista Cassero, in occasione del prossimo Pride nazionale del 28 giugno, ha pubblicato una mia intervista. Eccola qui.

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Cosa pensi del Pride, è tutt’ora necessaria e utile come manifestazione?

Assolutamente sì. Il nostro limite più grande è la scarsa visibilità di gay e lesbiche. Il Pride la favorisce e consente di mostrare la nostra consistenza numerica. E poi è un collante necessario : ogni comunità ha i suoi riti simbolici che la animano e la fanno sentire unita.

Il ritorno del Pride a Bologna ha per te un significato particolare in rapporto alla storia e alla situazione odierna della città?

È il segno di un ruolo importante che il movimento Lgbt dell’Emilia Romagna vuole continuare ad avere. Ma c’è anche un risvolto più politico. Bologna è da anni il laboratorio politico di un avvicinamento storico fra la sinistra laico-socialista e il cattolicesimo democratico. Questo Pride può sottolineare come questo incontro non potrà realizzarsi compiutamente se non affronterà il tema delle libertà individuali e della laicità delle decisioni politiche.

La scelta di alcuni comitati di tenere un Pride anche nelle loro città, non è o non può apparire come un segnale di divisione del movimento?

Non lo credo. È bene che le manifestazioni dell’orgoglio Lgbt si svolgano in quanti più luoghi e forme possibile. L’importante è che tutte le forze convergano nell’appuntamento nazionale.

Come mai in Italia la questione dei diritti non ha fatto passi avanti, ed anzi è regredita?
La lotta per il riconoscimento dei diritti delle persone lgbt è in continuo avanzamento in tutta Europa. In Italia se ne vedono i risultati sul piano sociale , non su quello delle riforme legislative. È la crescente centralità di questi temi a produrre anche un aumento dei casi visibili di omofobia. Anche il fatto che il Vaticano tuoni ogni giorno contro le famiglie non tradizionali è un segno di debolezza di fronte ad un processo che anche a loro appare inarrestabile.


Quali altre azioni oltre al Pride sarebbe necessario attuare nella direzione di una rivendicazione dei propri diritti?

Quello che non dobbiamo smettere per un momento di fare è consolidare la comunità lgbt e costruire un consenso crescente nell’opinione pubblica. Solo così, forti di noi stessi e del consenso raccolto intorno a noi, potremo raggiungere gli obiettivi che ci siamo dati.

E’ possibile anche in Italia si arrivi a pressioni di tipo lobbistico che mettano in luce il peso economico della comunità gay, e che ha portato in America a estendere nelle aziende i benefici matrimoniali, assicurativi ecc alle coppie gay?

Sul termine “lobbistico”bisogna intendersi: noi dobbiamo essere una lobby sociale, nel senso di un gruppo di pressione autonomo dalle forze politiche che si relazioni con queste sulla base di richieste precise e con la forza della propria capacità di rappresentanza. Oggi non è sul nostro peso economico che dobbiamo fare conto, ma sulla nostra incidenza nella società.


Manca a tuo parere una connessione con temi politici “altri” che faccia percepire i gay non come un corpo staccato dalla società? Per esempio Barbara Alberti nel suo incontro al Cassero ha sostenuto che le donne anziché come di recente solo per la difesa della legge 194, avrebbero dovuto scendere in piazza anche per la strage degli operai della Thyssen; è possibile per il movimento gay collegarsi ad istanze di altri?

È un punto delicato. Dobbiamo senz’altro legare le nostre battaglie a quelle più generali basate sugli stessi valori condivisi di libertà e di uguaglianza. Alcune battaglie di altri (per la difesa della 194, la modifica della legge 40 sulla fecondazione assistita, le discriminazioni etniche o religiose, la laicità della scuola pubblica) devono essere le nostre. Attenzione, però, a chi sostiene – e sono in tanti – che i diritti civili devono essere subordinati a quelli sociali. È stato l’alibi che per decenni ha giustificato l’inerzia della sinistra su temi considerati marginali o “sovrastrutturali”.

Il tema dei matrimoni gay viene criticato da alcune frange Queer del movimento (cito Terre Thaemlitz: “Siamo diventati ossessionati dai matrimoni gay e da altre forme che legalizzano i nostri corpi, anziché cercare di intervenire contro la rovina alla quale le corruzioni della legalizzazione ci portano”). Che ne pensi?

L’estensione del matrimonio a lesbiche e gay è una questione dirimente: vi si gioca il principio di uguaglianza di fronte alla legge e il riconoscimento simbolico della pari dignità degli amori. Questo non è per nulla in antitesi con una critica del matrimonio o dei modelli sociali attuali. Gay e lesbiche non lottano per sposarsi, ma per poter decidere liberamente se farlo o no.

Cosa deve aspettarsi la comunità lgbt dal prossimo governo ?

Non mi aspetto niente di buono, ma so cosa dobbiamo pretendere: il rispetto delle direttive europee che impongono la tutela normativa dalle discriminazioni, il libero spostamento in Europa del cittadini comunitari e del loro partner e l’ospitalità ai richiedenti asilo a causa del loro orientamento sessuale. Il resto dovremo lavorare duramente per ottenerlo. Il nostro campo d’azione nei prossimi due o tre anni dovrà essere soprattutto la società, non il palazzo.

Un politico, gay dichiarato, di destra come Pim Fortuyn denunciava nei suoi comizi l’immigrazione di persone provenienti da paesi caratterizzati da culture fortemente omofobe come un pericolo per la libertà raggiunta dagli omosessuali in Olanda. Per fare un esempio invece folcloristico nostrano, la Gardini quando in Commissione Giustizia si discuteva di omofobia ha urlato “voglio poter dire che l’omosessualità è una psicopatologia senza essere arrestata”. Come dobbiamo porci di fronte a culture contrastanti?

Il pluralismo culturale è la scommessa dei prossimi anni in Europa. Per vincerla dobbiamo fare nostra la lezione di Amartya Sen: ognuno di noi è portatore di elementi trasversali di identità che non vanno giocati in contrapposizione violenta l’uno all’altro ma che devono trovare una composizione armonica. Perché questo accada è necessario che nessuno si senta discriminato per la sua origine etnica, la sua religione, o il suo orientamento sessuale. Nessuno vuole mandare in galera la signora Gardini, ma la società deve proteggere i suoi componenti dalle aggressioni razziste, sessiste o omofobe, come ha più volte ribadito il Parlamento europeo.

Recentemente il quotidiano Liberazione ha dato molto spazio alle tesi di Judith Butler, che critica come un indebito tentativo di normalizzazione delle differenze culturali il voler ad esempio vietare l’infibulazione femminile agli immigrati. Come possiamo conciliare il rispetto delle differenze e il relativismo culturale con il nostro concetto di diritti universali e inalienabili?

Esiste un paradosso oggettivo nel voler conciliare un rispetto assoluto del pluralismo culturale con la difesa dei diritti civili individuali, un principio che appartiene ad alcune culture e non ad altre. Ma come gay so che il bene di una persona non coincide necessariamente con la tutela dei valori dominanti della società a cui appartiene. Fra il rispetto delle culture dei popoli e quello dei diritti fondamentali degli individui io scelgo il secondo e lo faccio non sulla base di un arbitrio ma di quella Dichiarazione universale dei diritti umani che rappresenta il punto fisso attorno a cui far ruotare il rapporto fra culture.

La scuola italiana può/potrà fare qualcosa in questo senso?

Deve farlo. Anche se sconta ritardi fortissimi la scuola rimane il luogo fondamentale in cui insegnare il rispetto delle differenza e i principi della convivenza.


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