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Una riflessione sulle prospettive del movimento lgbt dopo le elezioni

Il 14 aprile ha stravolto il panorama politico. Una nuova destra è al governo. La sinistra radicale è fuori dal parlamento. Il partito democratico è stato relegato all’opposizione. Il movimento Lgbt deve fare i conti col nuovo scenario mentre si trova nel guado di un cambio di strategia.

Il rapporto fra il movimento e la politica si è incrinato nel febbraio 2006. L’esclusione dei Pacs dal programma dell’Unione, dopo cinque mesi dalla promessa pubblica di Prodi, ha chiuso una fase in cui le principali associazioni, a partire da Arcigay e Arcilesbica, si erano fatte carico di costruire un percorso comune con i partiti più vicini per un primo riconoscimento concreto delle coppie dello stesso sesso nelle difficilissime condizioni italiane.

La capacità di mobilitazione lgbt, confermata anche dopo l’exploit del World Pride, i crescenti consensi sui Pacs registrati dai sondaggi, l’adesione a quella proposta dei principali leader della sinistra, avevano lasciato pensare che l’obiettivo potesse essere raggiungibile.

Il mancato conseguimento di quel risultato ha prodotto uno stato di conflitto con il centrosinistra e una nuova strategia, basata su tre assi fondamentali:

1. la richiesta chiara e netta della piena uguaglianza giuridica e sociale: “pari dignità, pari diritti”;

2. l’abbandono, da parte delle associazioni, di un ruolo di intermediazione fra le istanze della comunità e la ragion politica;

3. la centralità di un’azione sociale del movimento sia verso la comunità lgbt, da rendere un soggetto più coeso e consapevole, sia verso l’opinione pubblica, di cui costruire il consenso intorno alle nuove parole d’ordine.

Questo era stato il contesto dell’accordo unitario del movimento Lgbt del gennaio0 2007 e questo il senso del Congresso di Arcigay dello stesso anno.

Di questi obiettivi, solo il primo è stato realizzato, attraverso una ridefinizione unitaria della piattaforma del movimento.

Il secondo non ha prodotto i risultati sperati. La costruzione di un ruolo nuovo delle associazioni non ha comportato, come avrebbe dovuto, l’assunzione di un profilo più fortemente autonomo, di tipo sindacale, ma la ricerca, spesso disordinata e confusa, di nuovi referenti partitici e in alcuni casi uno slittamento su posizioni di sterile antagonismo.

Tutto ciò ha fatto perdere di vista il terzo e più importante obiettivo: la costruzione di un più ampio consenso nella società, con il rischio di isolamento dall’opinione pubblica, dalla politica, dalle persone lgbt.

A quadro ancora cambiato, o si cambia passo anche noi o si rischia l’implosione. Che fare? Io la vedo così:

1. “Uguale dignità, uguali diritti” è la nostra mission, da cui non si torna indietro. Questa parola d’ordine va valorizzata nel suo significato ideale ma va anche fatta vivere nelle sue articolazioni concrete. Dobbiamo costruire mille occasioni per spiegare le ragioni del matrimonio fra persone dello stesso sesso, quali sono le dimensioni della genitorialità lesbica e gay, da dove nasce l’esigenza del cambio anagrafico di nome e genere senza obbligo di intervento chirurgico genitale.

2. Non dobbiamo solo fare conoscere i nostri obiettivi, ma soprattutto lavorare alla costruzione del consenso: questo è un obiettivo prioritario. Evitiamo tentazioni autoreferenziali utili a dare sfogo alla nostra legittima indignazione ma spesso dannosi rispetto all’obiettivo di un maggior favore sociale. Questo vale anche e soprattutto per le occasioni di massima visibilità del movimento, cioè i Pride.

3. Va ridefinito il rapporto fra movimento e forze politiche. Il mantra “distinti e distanti” genera ambiguità, non tanto per il “distinti” (le associazioni lgbt lo sono sempre state, eccezion fatta per il Fuori di trent’anni fa e per qualche gruppo esplicitamente di partito), quanto per il “distanti”, su cui si giocano pericolosi equivoci. Distanti non può significare indifferenti e disattenti a quanto avviene nel quadro della politica. Né può significare distanti da alcuni e vicini ad altri (leggi ferocemente ostili con il Pd e embedded con la Sinistra Arcobaleno o con il Ps ). Guai se significasse uno slittamento nell’antipolitica militante alla Beppe Grillo o, peggio ancora, un invito a lesbiche e gay a disinteressarsi di politica (se ne avessero mai bisogno…) e magari ad astenersi dal voto. Distanti deve significare equidistanti o, quando è utile per i nostri scopi, equivicini. Nell’ultimo anno abbiamo dato – motivatamente -le polveri alle critiche più radicali ai partiti del centrosinistra. Oggi dobbiamo evitare che un atteggiamento solo ostile favorisca l’isolamento già in atto delle associazioni . Va ricostruita una strategia di relazione con le forze politiche. Questo vale anche, va da sé, per il Partito democratico. Qualcuno può considerarlo la causa di tutti i nostri mali. Altri ritengono che quello sia lo strumento essenziale per veicolare le nostre richieste. Tutti/e dobbiamo prendere atto che il Pd è oggi l’unica forza di centrosinistra rappresentata in Parlamento e che non è utile considerarla un avversario o pretendere di ignorarla.

4. Dobbiamo riuscire a distinguere la funzione delle associazioni da quella di chi, essendo parte della comunità lgbt, svolge un ruolo politico dentro le istituzioni e i partiti. Il movimento deve poter fare conto su persone fidate che dentro i partiti come nelle amministrazioni locali o nel Parlamento costruiscano i percorsi necessari perché atti amministrativi, buone pratiche e riforme legislative vedano la luce. È tanto più necessario se, a differenza di quanto è accaduto negli anni scorsi, le associazioni decidono di non giocare più esse stesse questo ruolo. Anche qui va marcata una forte e coerente distinzione, accompagnata da una reciproca legittimazione.

5. Infine, il compito più gravoso e irrinunciabile: lavorare al consolidamento dei legami effettivi /affettivi con una comunità lgbt che si sente assai poco rappresentata (e anche assai poco comunità). Un compito che non è slegato da tutto il resto. O le associazioni sapranno accreditarsi come strumento efficace e non ideologico per il miglioramento della vita delle persone che pretendono di rappresentare oppure rischiano la marginalizzazione da una base sociale che parla un altro linguaggio.

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