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A Bologna la crisi continua a colpire soprattutto l’industria meccanica. Negli altri settori manifatturieri nel commercio e nell’artigianato emerge una debole inversione di tendenza che però tarderà a mostrare i suoi effetti. Sul piano sociale, però, il peggio deve ancora arrivare. Nei primi tre mesi del 2010 le ore di cassa integrazione sono aumentate del 400% rispetto allo scorso anno. Le imprese in difficoltà  sono più di 1300, i lavoratori interessati dagli ammortizzatori sociali più di 30.000. Nei prossimi mesi saranno circa 20.000 i bolognesi a rischio di licenziamento o che non godranno più degli ammortizzatori.  Molte piccole e medie imprese saranno costrette a chiudere i battenti per la difficoltà di accesso al credito. Stessa sorte per negozi e attività produttive a conduzione familiare.

Dalla Sauer di Castenaso alla Hp Hydraulic, dalla  Parker Hannifin  alla  Testoni di Argelato, e poi la Oerlikon Graziano di Porretta, la Mf Group di Calderara e Monzuno, l’Arcotronics la Gsg, l’Interauto, sono migliaia i lavoratori bolognesi a rischio di disoccupazione. Si tratta in gran parte  di lavoratori specializzati, ma spesso formati sulle esigenze di una specifica azienda e in gran parte di età avanzata e quindi più difficilmente riconvertibili. Accanto ad essi, i tanti lavoratori atipici ( sono 20.000 i precari rimasti senza lavoro in Emilia Romagna dall’inizio della crisi secondo la Cgil) e i lavoratori autonomi.

L’intervento della Regione Emilia Romagna per ammortizzare gli effetti della crisi è stato straordinario in tutti i sensi. Grazie al Patto anti crisi da 520 milioni di euro sono stati salvati 67mila posti di lavoro, 12mila nella sola provincia di Bologna. Anche il Comune ha fatto la sua parte: nei mesi scorsi 3.200 bolognesi hanno usufruito dei provvedimenti anticrisi messi in campo dall’amministrazione.

Le misure di emergenza dovranno continuare, ma la crisi lascerà un’economia cambiata. Quello che serve è la capacità di analizzare questi cambiamenti e programmare la Bologna dei prossimi anni in modo consapevole, col concorso delle migliori intelligenze della città.

Per innovare il modello Bologna occorre innovarne le due coordinate principali: welfare e sviluppo. Rivedere il modello di welfare pensando al dopo crisi significa adattarlo ad una società e ad un mercato del lavoro in profonda  trasformazione, in cui l’organizzazione fordista ha lasciato il campo ad un mercato del lavoro frammentato e flessibile.   La risposta ai tanti che faranno fatica ad entrare o rientrare nel mercato del lavoro dovrà prevedere un nuovo modello di sicurezza sociale. Obiettivo del Paese dovrebbe essere, com’è stato per il sistema sanitario, arrivare ad un sistema di welfare legato alla flessibilità del lavoro: se non si riesce ad  intervenire sulle imprese per salvare il posto di lavoro, si può intervenire sul lavoratore per salvarne la continuità di reddito e l’aggiornamento formativo.  Non è questo un compito che può essere affidato ai soli enti locali ma com’è stato per altri settori, dai nidi all’assistenza agli anziani, Bologna e l’Emilia Romagna possono provare a sperimentare un nuovo modello di sicurezza sociale.

Ma non basterà consolidare e innovare il sistema di welfare, occorrerà anche un forte ruolo pubblico per mantenere e rinnovare la vocazione industriale del territorio bolognese. Investire in un nuovo modello di sviluppo significa per Bologna puntare su due preziose risorse un tempo considerate immateriali, ma su cui oggi è possibile pensare a nuove prospettive di specializzazione industriale della città nella competizione globale: i saperi e l’economia verde.

Il nuovo Tecnopolo che sorgerà all’ex Manifattura Tabacchi  è un esempio di come la ricerca possa puntare ad essere non un’ancella al servizio dell’industria, ma un’industria essa stessa. Allo stesso modo, occorrerebbe favorire l’investimento su un’industria della comunicazione, come sugli altri campi del sapere su cui Bologna può rilanciare in uno scenario contemporaneo la sua tradizione di città dotta.

Anche il tema della green economy rappresenta non solo un’occasione per pensare ad una città più sana e vivibile, ma un importante investimento economico per il futuro. Un esempio su tutti: l’amministrazione uscente stava programmando un percorso di rigenerazione energetica del patrimonio edilizio esistente, all’interno di una visione di sviluppo urbanistico qualitativo e non quantitativo. Quanto è pronto oggi il sistema produttivo bolognese a farsi carico direttamente di questo compito? Occorre una pianificazione condivisa, che chiami in causa le scelte degli enti locali, dei privati e della stessa Hera, basata su una visione strategica chiara dello sviluppo ambientalmente sostenibile della città, che dia alle imprese prospettive certe per investire sul futuro verde di Bologna.

Sergio Lo Giudice

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